L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Lo sciame e l'eternità

 di Andrea R. G. Pedrotti

Dalla prima assoluta di Lo sciame all'interno di Zeno Baldi al grande repertorio mozartiano e bruckneriano, il concerto diretto da Omer Meir Welber alla Fenice si configura come un affascinante percorso fra tensioni interiori e senso dell'eternità.

VENEZIA, 5 marzo 2016 - Venezia è notoriamente città unica al mondo, dalla bellezza sconfinata. Il massimo teatro cittadino è chiamato Gran Teatro La Fenice di Venezia. Grande, appunto, ma questo aggettivo non deve limitarsi all'ampiezza di una struttura finita, ma deve allargarsi all'eternità simbolica che può essere conferita a un nome. Più in tedesco (con la parola groß) che in italiano, la grandezza può indicare qualcosa di illustre, magnifico, importante, addirittura transfinito, come la bellezza di Venezia e l'eternità del sentimento.

Il primo brano del concerto eseguito nel plumbeo pomeriggio veneto era la prima esecuzione assoluta di Lo sciame all'interno di Zeno Baldi, commissionato nell'ambito del progetto “Nuova musica alla Fenice”, con il sostegno della Fondazione Amici della Fenice e lo speciale contributo di Marino e Paola Golinelli. Prima che gli archetti poggiassero sulle corde, il m° Omer Meir Wellber ha deciso di impugnare il microfono per una breve presentazione di ciò che avremmo ascoltato di lì a poco. “Non aspettatevi di tornare a casa e canticchiare una melodia di Zeno Baldi”, ha sentenziato il concertatore. Torniamo all'infinito e ripensiamo al titolo del brano, Lo sciame all'interno. Sulla base di questo nome saremmo portati a immaginare istintivamente qualcosa di contenuto nell'animo, qualcosa di oppresso e chiuso, forse piccola, anche se non certamente insignificante. Ma la fisica non ci ha insegnato quanto l'immensamente grande, somigli all'immensamente piccolo? Entrambi due “immensi”, grandi, infiniti ed eterni. Il breve brano di Zeno Baldi prevede un organico di dimensioni superiori rispetto a quelli cui la musica classica contemporanea ci ha abituati. La sua scrittura prevede una continua vibrazione, dal sentire quasi misterico, che cela in sé l'importanza, ma, al contempo, pare non aver mai sfogo effettivo: lo sciame, il fermento, la tensione, restano sempre all'interno. Grande cura nella gestione delle sezioni orchestrali, per la realizzazione di un effetto, che, naturalmente, è riuscito anche grazie alla bacchetta di Omer Meir Wellber.

Compositore novello sul palco e grandi applausi per lui, prima di accogliere un nome eterno e che in eterno resterà giovane, poiché la sua esistenza fu troncata a soli trentacinque anni. Giungono alla ribalta Wolfgang Amadeus Mozart e il pianista Alessandro Marchetti, vincitore del “Premio Venezia 2014”, per l'esecuzione del Concerto per pianoforte e orchestra in la maggiore n. 23 K 488. Ancora una volta notiamo come, quando sia Omer Meir Wellber a far da concertatore, il podio divenga cattedra. Mirabile la capacità del direttore israeliano nel cogliere le più piccole sfumature della scrittura mozartiana, quasi in prosecuzione con lo sciame interiore di prima. Mozart era un personaggio certamente dal carattere piuttosto esuberante e la tensione udita poc'anzi in Zeno Baldi si sviluppa e cerca di sfogarsi nel concerto mozartiano per pianoforte più eseguito. Gli interventi pianistici sono legati perfettamente a quelli orchestrali, in cui si apprezzano sonorità molto belle e coinvolgenti nei pizzicati. Il minor virtuosismo, rispetto ad altri concerti del genio di Salisburgo, lascia spazio a un'accurata cura del fraseggio. Ascoltando il brano ci sovviene una piccola considerazione: il concerto venne scritto nel 1786, lo stesso anno di Le Nozze di Figaro, una delle opere contenente una delle più intense espressioni di pentimento e contrizione per l'aver tradito un sentimento, ossia “Contessa, perdono”, indirizzata dal Conte alla sposa tradita e umiliata. Allegro-Adagio-Allegro Assai è la sequenza dei tre movimenti. L'elegia resta sempre vibrante suscitando un innegabile stato emozionale in chi ascolti il concerto. Non è facile come sembra, perché il rischio di un'esecuzione scolastica (quindi noiosa) di Mozart è sempre prossima. Tuttavia Marchetti e Wellber riescono a ottenere da pianoforte e orchestra un fraseggio strepitoso e, quando l'organico non nutritissimo ha libertà di sfogarsi, pur mantenendo sempre quel curioso senso passionale e melanconico, l'emotività stenta a trattenersi. L'ultimo movimento concede qualcosa di più al virtuosismo, quasi lo sciame emozionale della nostra emozione cerchi uno sfogo, ma, si sa, in questo Mozart è crudele e prepara sempre a un'esplosione che, sovente, si conclude in sospensione e riflessione.

Così la riflessione ci conduce a Bruckner e alla sua Sinfonia n. 6 il La maggiore WAB 106. Passano quasi cento anni dalla composizione del concerto di Mozart (Bruckner terminò questa sinfonia nel 1881). A differenza del brano precedente, questa non è fra le composizioni più eseguite del compositore austriaco, ma si incastra benissimo nella successione di significati del pomeriggio veneziano. Quattro movimenti - Majestoso, Adagio Sehr Feierlich (molto solenne), Scherzo Nicht Schnell (non veloce), Finale Bewgt, doch nicht zu schnell (mosso ma non troppo veloce) - che predispongono allo sfogo dell'immensità dello sciame emotivo che cova in noi. La nevrosi chiede di esser compiuta. Una sinfonia sicuramente maestosa, come maestosa è la concertazione di Omer Meir Wellber il quale non si fa sfuggire nemmeno un dettaglio della partitura, unendo al meglio le sezioni, con insuperabile maestria nello sfruttare gli effetti dei bassi e conferendo al suono un fraseggio e una linea musicale stupefacenti. Armonia e melodia sono fusi assieme in encomiabile unisono emozionale. L'abilità del maestro israeliano di trarre un flusso narrativo, con mirabile approfondimento drammaturgico, suscita sempre ammirazione. Se l'interpretazione è a livelli assoluti, non da meno è l'abilità tecnica, che gli consente di dare unitarietà a un'orchestra attualmente priva d'un direttore musicale.

Ora, saremmo tutti portati a pensare a un'esplosione finale, a uno sfogo emotivo che finalmente possa giungere al proprio apice, invece no: si chiude con un clima di sospensione, nulla è compiuto e l'eternità prosegue nella sua ciclicità inarrestabile. Un pomeriggio alla ricerca di qualcosa che si è atteso, si è aspettato, ci si è creduto, ma non è mai arrivato. Ci credevamo, è vero, ma i brani erano noti, perciò confidavamo (più inconsciamente che consciamente) in una soluzione, nella salvezza. Forse crediamo non sia arrivata, ma se la attendevamo, come una nevrosi, dal nostro sciame interiore, può darsi che essa sia già dentro di noi, che abbiamo il dovere di andare avanti e sentirci vivi, innanzi a qualsiasi tormento. Ricomincia la ciclica eternità: al termine del concerto una maschera entra di corsa nel palco: “Signori, acqua alta! Non si passa da San Marco.” La maree: un altro ciclo emotivo eterno dei flutti, quei flutti che, secondo Alceo, tormentavano l'imbarcazione di noi stessi.


 

 

 
 
 

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