L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Pomo d’oro tra Berlino, Dresda e Vienna

 di Francesco Lora

Al Festival di Pasqua di Salisburgo, la Staatskapelle di Dresda mostra strapotere in tre concerti diretti da Franz Welser-Möst, Myung-Whun Chung e Christian Thielemann; ma l’edizione del giubileo le affianca, in spettacoloso convegno di orchestre massime, i Berliner e i Wiener Philharmoniker.

SALISBURGO, 9-12 aprile 2017 – Una struttura simmetrica caratterizza per lunga tradizione il programma del Festival di Pasqua di Salisburgo nella sede del Grosses Festspielhaus: un primo ciclo di spettacoli in abbonamento si apre la vigilia della domenica delle palme, con un’opera in forma scenica, e nei tre giorni successivi prosegue e termina con altrettanti concerti sinfonici, uno dei quali si distingue per la massiccia presenza corale; un concerto aperto alla cittadinanza e alle istituzioni salisburghesi, piuttosto che al pubblico internazionale di abbonati, funge da cerniera cadendo di norma la sera del giovedì santo; inizia quindi un secondo ciclo di spettacoli in abbonamento, tal quale il primo ma invertito nell’ordine, così che l’accoglienza avvenga il venerdì santo con il terzo concerto e il congedo avvenga il lunedì dell’angelo all’insegna dell’opera.

Questa perfetta simmetria sembra evocare l’analoga struttura della “scena dell’agape” nel Parsifal di Wagner, la quale si svolge con regolare e cristallizzata ritualità intorno a un ripensamento invero sacrilego dell’ultima cena. Alla simmetria del programma salisburghese partecipano gli spettacoli-satellite, ossia il concerto da camera mattutino della domenica e un’eventuale seconda opera pomeridiana o notturna, scelta di preferenza tra quelle di breve respiro nel repertorio contemporaneo. Ma il programma dell’edizione giubilare di quest’anno, cinquantesima dal 1967 e svoltasi dall’8 al 17 aprile, è parso evocare con ulteriore esattezza lo schema della “scena dell’agape”: come quest’ultima è squarciata all’improvviso dal monologo di Amfortas, così due concerti straordinari hanno tagliato il festival in momenti imprevedibili.

Si allude alle due esecuzioni personalmente sovvenzionate da Eliette von Karajan affinché il cartellone, in via eccezionale, accogliesse due orchestre strettamente legate alla memoria del defunto marito e fondatore del festival: i Berliner e i Wiener Philharmoniker. Esse si sono affiancate alla Staatskapelle di Dresda – compagine residente dal 2013, dopo la rinuncia dei Berliner – e hanno dato luogo allo spettacoloso convegno delle tre orchestre che si contendono a più fondato diritto il vanto di migliore al mondo. Competizione artistica è stata fino all’ultimo colpo d’arco e squillo di tromba; e se la presente recensione esce dopo qualche giorno di indugio, ciò è anche perché il pomo d’oro gettato tra l’Atena di Berlino, l’Afrodite di Dresda e l’Era di Vienna non abbia a scatenare troppa guerra intorno al Paride incaricato di darne conto.

All’indomani della serata inaugurale con la Walküre [leggi la recensione], il primo concerto della Staatskapelle – 9 aprile con replica il 15 – ha d’altra parte significato un insolito proclama di bellezza. Insolito, poiché in programma v’era la Sinfonia n. 9 di Mahler con il suo presentimento, lugubre, di morte del compositore stesso e, perentorio, di addio della sinfonia come genere: quanto basta a promuovere una lettura analitica, asciutta, estrema, più diretta all’enunciato letterale che intenta alla malizia del porgere. Ma il direttore Franz Welser-Möst è un tecnico rigoroso, non un filosofo, e i suoi spazi senza temperamento sono stati riempiti dagli strumentisti di Dresda con un’esuberanza di piglio, una polposità di timbri e un’esplosione di suono tali da evocare piuttosto l’entusiastica gioia di vivere e la confidenza nella gloria dell’ultraterreno.

Per mettere a fuoco l’essere della Staatskapelle, in vista del contributo mahleriano, giova l’ascolto del concerto da camera mattutino, il 9 aprile stesso nel Mozarteum. L’Ottetto D 803 di Schubert ha come modello il Settimino op. 20 di Beethoven, a sua volta bozzetto delle sinfonie in forme e strumentazione. Nell’eseguirlo le prime parti di Dresda non solo mostrano trascinante autonomia poetica, ma per ampiezza di gesto e ricchezza d’armonici valgono appunto l’intera fila: in otto bastano a restituire l’oro e la seta, il canto e lo scatto della compagine, facendosene omogenea ed esaustiva molecola. Quando però gli archi passano al Quintetto n. 2 op. 81 di Dvořák – raggiunti da Lilya Zilberstein, che dal pianoforte tiene dolce e salda la concertazione malgrado gli altri le diano le spalle – peso, gesto e colori mutano subito in quelli tipici di solisti.

Il Festival di Pasqua era un tempo agone del solo direttore in capo dei Berliner: Karajan iniziò a condividere il podio soltanto negli anni di vecchiaia e malattia. Oggi non è più così, e lo palesa la cessione che Christian Thielemann ha fatto prima a Welser-Möst, poi a Myung-Whun Chung. Il programma da quest’ultimo scelto e diretto – 10 e 14 aprile – ha interrotto la teoria filogermanica con un’escursione francofila: il Requiem di Fauré e la Sinfonia n. 3 di Saint-Saëns. Nessun cambio di fonica potrebbe essere richiesto alla Staatskapelle senza snaturarne il lussureggiante tessuto; e Chung sa quanto profitto convenga trarre allora da indugi pensosi e dinamiche sommesse, reinventando il rarefatto abbandono di Fauré al cospetto di un’orchestra dal materiale denso e splendente, ridotta in modo considerevole negli elementi ma pur sempre rannuvolata da ben sei contrabbassi.

Dei tre concerti canonici questo diretto da Chung, mediante la partitura di Fauré, è stato anche quello con privilegio del coro. La compagine del Bayerischer Rundfunk, preparata da Howard Arman, si lascia plasmare dal concertatore e fornisce all’insieme più la purezza delle linee melodiche e il nudo canto della liturgia che un apporto timbrico in grado di competere con la Staatskapelle. Qualche apprensione nei cantanti solisti: circondata da una soffusione prodigiosa, il soprano Anna Prohaska fatica a corrispondere un pianissimo altrettanto etereo e un’intonazione altrettanto infallibile; vi riesce il baritono Adrian Eröd, a costo di schiarire e alleggerire all’inverosimile, fin quasi a ritrovarsi tenore. Manco a dirlo, in Saint-Saëns la Staatskapelle restaura poi un tale sfarzo da ingurgitare gli altisonanti interventi dell’organo concertante e sovrastare la fama del solista Cameron Carpenter.

Appena tre ore prima, il 10 aprile, i Wiener Philharmoniker si erano buscati applausi così lunghi da far temere la mancanza di tempo tra l’uscita del pubblico dal Grosses Festspielhaus e l’ingresso per il concerto diretto da Chung. Uno scambio amichevole e insieme un atto di supremazia: sul podio dei Wiener, dopo aver ceduto la Staatskapelle a due colleghi, è salito Thielemann. E il programma è stato quello per eccellenza del giubileo: la Sinfonia n. 9 di Beethoven, che ha dato inoltre adito a un doppio concerto corale nello stesso giorno. La concertazione ha agito in vista non tanto di una lettura personale con nuovi apporti, quanto dell’ostensione celebrativa del monumento musicale, secondo il poderoso modello esecutivo novecentesco ancora scevro di dubbi filologici: impasto denso, omogeneità timbrica, fraseggio scandito attraverso tempi mai precipitosi.

In Thielemann ogni cellula motivica trova levigatezza in un discorso unitario, grandioso e imperturbabile, senza inseguire particolarità di carattere e senza tema di compiacimento calligrafico. Ne è esempio il tempestoso sviluppo del primo movimento: la violenza degli scoppi qui non evoca l’indomabile furore della natura o il dramma dell’animo, bensì ritrae il potente controllo del concertatore. E ne è ancora esempio la prima enunciazione del tema dell’Ode alla gioia, qui non impercettibile come piace fare a molti virtuosi del podio, ma piena, quieta, austera, già compiutamente apprezzabile senza dover far tendere l’orecchio e rinviare alle ricorrenze. Emergono le specialità dei Wiener: densità d’impasto con i timbri che mirano al corpo unico, tensione della frase gettata per periodi assai estesi, gesto così autorevole da non curarsi dell’occasionale sbavatura.

Da Vienna proviene anche l’educata e numerosissima compagine corale, ossia il Singverein der Gesellschaft der Musikfreunde preparato da Johannes Prinz. E dalla compagnia di canto della Walküre proviene in blocco il quartetto dei cantanti solisti, riaffermando l’obsoleta e pericolosa transizione di risorse tra la letteratura beethoveniana e quella wagneriana. Il lussuoso schieramento del soprano Anja Harteros, del mezzosoprano Christa Mayer e del tenore Peter Seiffert implica così l’ingolfamento di voci importanti in una scrittura che necessita anche di sveltezza e leggerezza, e il disagio in una linea di canto che batte senza veruna remora su luoghi disagevoli della tessitura. Il monito non deve valere per tutti: il basso Georg Zeppenfeld svetta infatti sonoro, elegante e smaltato dal suo primo intervento all’ultima fragorosa battuta.

Le qualità della Staatskapelle balenano soprattutto nel concerto dell’11 e 16 aprile, sotto la direzione di Thielemann. Dopo un Beethoven cavato dall’oro massiccio dei Wiener, stupisce ascoltare dallo stesso direttore un Mozart così sollecito e flessibile, trasfigurato nei distinti timbri di legni e ottoni: ma il materiale è ora quello, filigranato, dell’orchestra di Dresda, ipercaratterizzata in ogni fila e sempre pronta al motto brillante. Superbo protagonista del Concerto per pianoforte n. 21 KV 467 è Daniil Trifonov, con quell’articolazione che sgrana ogni nota a puntino senza mai appesantirla, e con quelle sue disinibite cadenze che attraggono la partitura nel Novecento. Sgomento durante la successiva esecuzione della Sinfonia n. 4 di Bruckner: la macchina da guerra della Staatskapelle, fiammeggiante di riflessi metallici, fa strame nel teatro che attende i Berliner.

Ed ecco i Berliner Philharmoniker, al loro ritorno come ospiti nella rassegna che fu la loro casa; eccoli guidati da Sir Simon Rattle, il 12 aprile, per replicare la Sinfonia n. 6 di Mahler eseguita a Baden Baden tre giorni prima. Li si riconosce in un lampo, quali li si era lasciati nel 2012: con quei timbri così puri e radiosi da dissolvere quasi gli armonici specifici e sublimare tutti insieme in una luce alta e abbagliante; e con quel raccogliersi fiduciosi intorno al capo, per riceverne l’indirizzo interpretativo, quasi non avessero un’identità profonda alla maniera di Dresda e Vienna. Grazie alla loro mediazione, Rattle esamina Mahler con la solita asettica lucidità, quasi una raccolta di studi intorno alla sinfonia anziché uno scavo viscerale del testo intero: i grotteschi campanacci rubati ai pascoli, così lustrati, sembrano ora calcolate finezze esotiche. La forza – e l’eccesso – dell’intelletto.

 foto Ostefestspiele Salzburg / Matthias Creutziger


 

 

 
 
 

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