L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Fiat lux

 di Alberto Ponti

Riccardo Chailly e la Filarmonica della Scala chiudono MITO SettembreMusica con un programma tutto dedicato al Novecento.

Leggi anche la recensione di Antonino Trotta

TORINO, 21 settembre 2017 - Se davvero si volesse trovare trovare un filo conduttore per il programma del concerto di chiusura di MITO SettembreMusica, svoltosi a Torino nella cornice del Teatro Regio giovedì 21 settembre (e il giorno precedente nel milanese Teatro degli Arcimboldi), forse, pescando nel côté naturalistico caro a questa edizione, il termine più adatto sarebbe Illuminazioni, a sottolineare il percorso graduale dai fremiti di Ligeti alle buccine di Respighi. Le vere Luci (questo era il sottotitolo ufficiale della serata, per quel poco o tanto che può valere di fronte ad opere maestre in grado da sole di innescare mille e mille baudelairiane correspondances) si sono avute solo nella finale sinfonia de La forza del destino, regalata fuori programma da Riccardo Chailly e dalla Filarmonica della Scala a una sala calorosissima ed entusiasta. Vigorosa, tesa ma non esasperatamente drammatica, sfolgorante e appassionata dai fatidici accordi iniziali all'Allegro brillante conclusivo, la gran pagina verdiana, eseguita in tal modo da un'orchestra e un direttore italiano, è uno dei più bei biglietti da visita per quanto di veramente sublime il nostro paese ha saputo creare e mantenere.

Fra numerosi colpetti di tosse di un pubblico, non solo torinese, ancora poco abituato al secondo Novecento (e scriverlo nel 2017 è quasi comico) la serata aveva preso avvio con le fittissime, sotterranee trame di Lontano (1967), una delle chiavi di volta dell'universo di György Ligeti (1923-2006), emozionante, monolitico continuum increspato da bagliori segreti e tutti interiori. Il gesto di Chailly, indipendentemente dal repertorio, rimane tra i più gradevoli a vedersi per senso della misura ed intesa con la compagine scaligera, e riesce a rendere con chiarezza esemplare un brano problematico come il Concerto per viola e orchestra di Béla Bartók (1881-1945), incompleto alla morte dell'autore. Tibor Serly, animato dalle migliori intenzioni e dalla infinita devozione di allievo, provò a fare l'impossibile mettendo mano al cospicuo, ma non definitivo, manoscritto di uno dei grandi del XX secolo. Il risultato è un'opera che alterna magnifiche idee (l'ingresso del solista nell'Adagio religioso, con uno splendido Julian Rachlin, è un momento di altissima ispirazione) a passaggi un po' sghembi, soprattutto nel primo movimento, che non sarebbero mai usciti tali e quali dalla penna bartokiana. Deficienze riscattate tuttavia appieno dall'esecuzione perfetta e coinvolgente di Rachlin, al servizio della partitura anche nel virtuosistico finale e supportata da un'intonazione ora calda e vibrante, ora decisa ed energica, di assoluto riferimento per tecnica, pulizia, controllo.

Nonostante i cattivi propositi abbadiani, Ottorino Respighi (1879-1936), a oltre ottant'anni dalla scomparsa, sopite da decenni retoriche e polemiche, si colloca a pieno diritto tra i maggiori compositori della sua epoca. Certo, la sua musica non ha l'ingegno e l'estro costruttivo di un Malipiero (dopo l'esaltazione a livello mondiale di Sibelius cui abbiamo assistito negli ultimi lustri, rimane inspiegabile la totale assenza dai programmi del sommo sinfonista italiano), ma dimostra una capacità di assimilazione sbalorditiva delle correnti più disparate, tutte fuse ed integrate in un discorso di elevata ed inconfondibile eleganza stilistica. Sia in Fontane di Roma (1916), forse il migliore dei suoi poemi sinfonici, che in Pini di Roma (1924), la direzione di Chailly è impeccabile, scava a fondo in una scrittura orchestrale che dietro gli effetti strumentali più esteriori e sbalorditivi cela una profonda e quasi inarrivabile conoscenza delle capacità di ogni singolo strumento. Poco importa allora che il gioco dei bambini a villa Borghese si alimenti di suggestioni derivanti dal tutt'altro che spensierato Petruška stravinskiano, o che nel meridiano abbandono della fontana di Trevi spunti l'ombra teutonica delle alpi bavaresi predilette da Richard Strauss. Al termine a trionfare è Respighi con i suoi affreschi di una spontaneità sempre intatta e rinnovata all'ennesimo ascolto, come già compresero Toscanini e Karajan. Nelle nostre orecchie, più che l'esplosione di romanità dei pini della via Appia (quale rilievo aveva però il tema dei violini all'apoteosi sotto la bacchetta del maestro milanese!), risuona ancora il liquido estinguersi degli zampilli di Villa Medici, in un'interpretazione impressionante che segna come poche altre il trapasso dalla sera romana all'abbraccio silenzioso della notte.


 

 

 
 
 

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