L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Solemnis ma non troppo

di Alberto Spano

L'omaggio a Beethoven con la Missa Solemnis apre la stagione sinfonica del Comunale di Bologna sotto i migliori auspici. Asher Fisch si fa portatore di una lettura dipanata con saggezza e fermezza, ben coadiuvato dal quartetto di solisti e dai complessi del teatro in grande spolvero. 

BOLOGNA, 4 febbraio 2020 - È ormai difficile eseguire la grandiosa Missa solemnis di Beethoven, anche per via della rete, prescindendo dalla illuminante lettura che ne ha dato negli ultimi anni quel grande interprete ormai ritiratosi dalle sale di concerto che è Bernard Haitink, oggi novantenne. Il quale dopo aver donato preclare letture nei vari decenni delle Sinfonie beethoveniane, solo ultimamente si è accostato alla partitura del capolavoro sacro beethoveniano, giungendo alla commovente registrazione con i complessi della radio monacense nel 2014, seguita dalla ormai storica esecuzione coi i complessi milanesi al Teatro alla Scala (2017). Lettura la sua quanto mai sottile, raffinata e sospesa, che fa il paio con l’interpretazione più intimistica e latina di Carlo Maria Giulini (1975). A questi due fari sembra essersi orientato l’israeliano Asher Fisch nel suo riuscitissimo concerto di avvio della nuova Stagione Sinfonica del Teatro Comunale, il 4 febbraio scorso in un Auditorium Manzoni mai così gremito e festoso. La direzione del teatro ha voluto aprire con Beethoven nell’anno del 250mo anniversario della nascita, ma con un Beethoven molto speciale, quello della poderosa Missa solemnis op. 123. Qualcosa della straordinaria chiarezza della lettura haitinkiana abbiamo ritrovato nel gesto semplice ed eloquente di Fisch, il quale ancora una volta, con lodevole onestà intellettuale e con non comune equilibrio interiore, ha letteralmente dipanato con saggezza e fermezza questa enorme struttura architettonica musicale uscendone vittorioso. Fisch, attualmente direttore stabile della West Australian Symphony Orchestra di Perth, in Australia, non cerca gli eccessi, i gesti violenti, gli strappi e gli sforzati tipicamente beethoveniani, poco presenti a dire il vero in questa straordinaria partitura costata quattro anni di lavoro e nata come omaggio al proprio allievo arciduca Rodolfo eletto il 24 marzo 1819 nuovo vescovo di Olmütz. Un’opera di assai rara esecuzione in Italia, per di più a Bologna, dove se ne ricorda ancora una ormai lontana ma pregevole esecuzione a cura dei complessi del Comunale nel settembre 1981 con la bacchetta del geniale direttore russo Vladimir Delman. Dopo trentanove anni probabilmente nessuno dei professori d’orchestra che suonarono con Delman era al Manzoni l’altra sera, e ancor più probabilmente nessun professore d’orchestra del Teatro Comunale l’aveva in repertorio. Una nuova acquisizione, dunque, per i complessi del Teatro Comunale, un enorme impegno esecutivo per il coro e l’orchestra.

Pur trattandosi di Beethoven bisogna ammettere che la Missa solemnis non è facilmente riconoscibile o cantabile: è un ascolto piuttosto impegnativo, poiché quasi mai “suona” come Beethoven, così intrisa di riferimenti alla musica della chiesa. Il genio di Bonn scrisse poche opere sacre (fra le altre anche l’Oratorio Cristo sul monte degli Ulivi), genere che non era proprio tipico della sua indole, ma in cui ha consegnato gemme assolute con grande personalità e umiltà. Un autentico sforzo creativo il suo, tanto da fargli scrivere sulla parte del Kyrie della sua seconda Messa (quella in do maggiore): “Per scrivere della vera musica religiosa, esaminare tutti i corali ecclesiastici dei monaci, etc, farne degli estratti, anche delle strofe nelle traduzioni migliori, con la prosodia più esatta di tutti i salmi ed inni cattolici”. Complessa, difficile, ardua, sublime, pura, la Missa solemnis appartiene alle opere visionarie dell’ultimo periodo (ultimi quartetti, ultime sonate, Variazioni Diabelli) e ne è forse la più enigmatica e irrisolta. Fiumi di inchiostro sono stati scritti su questo discusso capolavoro, che ancora risulta impenetrabile, con i suoi tanti difficilissimi fugati e i pochi momenti lirici. L’aveva ben scritto Thedor Adorno nel 1957: “La Missa è costituita da un metodo eccezionale per Beethoven, di scotimento caleidoscopico a cui segue la combinazione degli elementi risultanti. Gli incisi tematici non si mutano con l’arco dinamico della composizione, inesistente, ma si affacciano continuamente e sempre identici in una illuminazione diversa… La struttura interiore, la fibra di questa musica è radicalmente diversa da tutto ciò che s’intende per stile beethoveniano. Essa è arcaicizzante, non è ricavata formalmente dalla variazione e dallo svolgimento dei germi tematici, ma si compone di una somma di sezioni per lo più imitativa paragonabile alla tecnica dei Fiamminghi della metà del XV secolo… Escludendo il principio dello sviluppo, Beethoven ha rinunciato nella Missa ai caratteristici temi beethoveniani: non è di fatto possibile citare una sola melodia cantabile della Missa, cosa invece normale per tutte le Sinfonie e per il Fidelio”. Convincente alla prova dei fatti la lettura di Asher Fisch, assai coesa e scorrevole, con orchestra e coro (diretto da Alberto Malazzi) che sfoggiano sonorità brillanti e compatte. Sulla stessa linea interpretativa di Hatink e Giulini, Asher Fisch assicura un’ottima tenuta orchestrale, una visione non tellurica ma quasi pacificata. Di alto livello i solisti di canto, perfettamente a loro agio e con belle evidenze vocali, col soprano Siobhan Stagg, il mezzosoprano Stefanie Iranyi, Antoni Poli, tenore e Felix Speer, basso. Alla fine successo trionfale per tutti e gioia del pubblico. Inaugurazione di stagione nel nome di Beethoven e sotto le migliori stelle.


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