L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Naturalia, reali e fantastiche

di Roberta Pedrotti

I primi due giorni del festival Settenovecento OFF offrono un viaggio fra natura, storia, sapori e suoni a cui ben si affianca un percorso attraverso le esposizioni del Mart.

Il festival Settenovecento di Rovereto quest'anno si intitola Naturalia e parte Off. Si va fuori, all'aria aperta, il suono della musica si mescola al suono del bosco e del torrente, si cammina, si va alla ricerca di sapori, profumi, sole, brezza, cinguettii, ronzii, pianoforti, viole, fiati, della salita che si fa sentire nei muscoli delle gambe. È la vita, finalmente. Ce la possiamo gustare in leggerezza e disimpegno, godendoci la bella giornata, il concerto avventuroso con i dispetti del vento che scompiglia gli spartiti o quello un po' straniante con i viandanti accaldati in maglietta e calzoncini che si affollano nel salone antico della piccola nobiltà montanara per Brahms con giovanissimi esecutori teneramente overdressed (il lungo nero alle cinque del pomeriggio sarebbe fuori etichetta anche alla Scala, ma qui si sorride complici per il curioso contrasto e l'evidente volontà dei ragazzi di dare la massima importanza all'evento.

Sì, ce la possiamo gustare in leggerezza, una bella gita in montagna con concerti e calici di vino di aziende locali. Però, la leggerezza non è superficialità e cela sempre lo spazio per una riflessione.

Sabato 14 maggio, la prima giornata del Festival Off che si dipanerà dei fine settimana fino al 12 giugno, siamo ad Ala, graziosissima, ancorché arroventata e silente, cittadina già candidata a Capitale italiana della cultura. Dovrebbero accompagnarci in Val dei Ronchi fino alla Fucina Cortiana tre baldi forestali, ma il cortese invito a partecipare alla collega di lungo corso, pensionata a cavallo dei lockdown e dunque impossibilitata finora a un ultimo “giro d'onore”, non lascia scampo: quarant'anni in questi boschi non sono cosa da poco e l'esperienza, la passione, l'energia formidabile di Sandra Delpero diventano subito l'animo della camminata. La meta è un antico mulino convertito in fucina alla fine del XIX secolo, mola e maglio ancora funzionanti, con lo stupore ammirato dei visitatori. La squadra (perfetta) costruita dal fabbro artigiano con una radice, gli arnesi, addirittura due bombe e un'elica (metallo buono lasciato dalla guerra), tutto desta espressioni ammirate come in un antico reame di fiaba. Però, pensiamo, se ora rimaniamo incantati di fronte al meccanismo che mette in moto ruote, ingranaggi, utensili, solo qualche decennio fa questo era luogo di lavoro durissimo e pericoloso, fra implacabili meccanismi, temperature altissime, fuliggini, senza contare i capricci del tempo, il rischio di rovinose alluvioni o di siccità paralizzanti. Il fabbro Cortiana, che rilevò lo stabile colpito da un'inondazione e passò dalla lavorazione delle granaglie a quella dei metalli, era un piccolo imprenditore che si sarà costruito una posizione migliore di tanti altri nelle vallate, ma non è certo una fiaba zuccherosa quella che ora ci affascina tanto.

Di fiaba sa subito il nostro arrivo alla Fucina, accompagnato dalle prove del concerto degli allievi della classe di musica d'insieme per strumenti a fiato (prof. Francesco Fontolan) del conservatorio Bonporti di Trento e Riva del Garda. Flauto, clarinetti, saxofono, fagotto e tromba ripassano qualche pagina e si accordano in una radura in riva al torrente. Siamo in anticipo, qualche nuvola si affaccia fra le cime, si comincia! Mancherebbe un'oretta sulla tabella di marcia, ma non è tempo di formalità, è tempo di far musica nel bosco e se il professore dice bene che quello non è il luogo ideale, non è nemmeno detto che una fruizione alternativa intrecciata alla sinfonia del bosco – brezze, uccelli, insetti, acque – non abbia il suo fascino e il suo senso. Rilassiamoci, aguzziamo l'orecchio, prepariamoci all'imprevisto. Il quale, puntualmente, arriva: fila liscio il Quartetto per flauto (Anna Ranuzzini), due clarinetti (Maria Luciani e Michele Pezzedi) e fagotto (Ivo De Ros) di Ignaz Pleyel, grazioso esercizio di stile classicista di un coetaneo di Mozart che ebbe la ventura di vivere quarant'anni in più e far fortuna con l'editoria e l'industria del pianoforte. Poi, la musica si complica, Pezzedi imbraccia il clarinetto basso, arrivano Andrea Tunon Lopez al saxofono e Daniele Grott, arriva anche una direttrice, Anastasia Shnyrova, musicista ucraina accolta con altri colleghi dal conservatorio all'inizio di marzo. I sestetti sono (sarebbero) la Pastorale e danza di Newel Kay Brown e una trascrizione (a cura di Paley e Fontolan) dell'Apprendista stregone di Dukas. Solo che le partiture sono fitte fitte e il vento non le lascia in pace, tant'è che pare assai opportuna la scelta del professor Fontolan di trasformare la seconda parte del programma in una lezione concerto con maggior agio di selezionare un tema o un movimento, fermarsi e riordinare le carte. La cosa funziona, peraltro, benissimo per un pubblico eterogeneo composto da persone di ogni età, famiglie con bambini, chi attratto più dalla musica, chi più dalla montagna o dalla degustazione. Sì, perché poi ad attenderci c'è anche un bel calice di Rocol, ottimo Merlot della cantina Borgo dei Posseri.

Non resta che fare il bis, allora: non importa quale sia la prima sirena ad attrarci, perché lavorano in perfetta sintonia. Domenica 15 siamo a Nogaredo e la scaletta è simile: camminata con guida, concerto, calice di vino locale. Il bello, però, è che il Settecentonovecento Off coincide con Calendimaggio dele strie, la manifestazione con cui il comune trentino ricorda il processo alle streghe tenutosi nel 1647 e culminato con la condanna a morte di alcune donne del luogo. La fiaba, il mistero quando si fa storia diventa anche dramma, ma si riconverte in occasione propizia di convivialità, condivisione, scoperta e riflessione. Nel concreto: otto tappe, in cinque luoghi chiave del Comune, cinque menù (colazione, aperitivo, primo, secondo, dolce), punti ristoro “fuori pasto e fuori orario”, musica, mostre, rievocazioni. Ogni stazione è dedicata a una donna: la direttrice d'orchestra Xian Zhang (la prima ad aver ricoperto la carica di principale in una istituzione concertistica italiana), l'astronauta Samantha Cristoforetti, l'ex prima cittadina di Lampedusa Giuseppina Maria Nicolini, l'atleta Bebe Vio, l'attivista premio Nobel Malala Yousafzai. Qua e là, bandiere arcobaleno, appelli alla pace, sedie rosse contro la violenza di genere. Davvero una bella iniziativa, senza contare che si mangia e si beve bene, che l'occasione per visitare corti e castello è graditissima. La nostra passeggiata, sotto la guida di Anna Forti, punta alla “corte Malala”, dove si fanno dolcetti di patate ricotta e mele dall'aria deliziosa e si può ammirare il Castelet, un ex mulino sviluppatosi con suggestiva regolarità in altezza. Da lì, lo scorcio incantevole della vallata con il suo ruscello rischia ancora una volta di farci sognare, eppure, al tempo dei mulini, nella bella stagione era lavoro durissimo, rumore assordante di mole, carri e sacchi, viavai senza tregua; d'inverno, era ghiaccio, era isolamento ed era fame.

Giù in paese, al ritorno, entriamo nei saloni dei “signori”, Palazzo Lodron, che produce anche il vino che assaggeremo, il Flaminia (Merlot, Cabernet franc e Cabernet sauvignon), rosato di una certa personalità. Prima, però, è l'ora di Brahms, con le sonate 1 e 2 dell'op. 120 per viola (Simone Donato cui succede Lorenzo Bertero) e pianoforte (Matteo Scalet e quindi Stella Pontoriero). I ragazzi del conservatorio Monteverdi di Bolzano sono bravi e ben preparati, curano l'equilibrio dinamico e il rapporto reciproco. Sarebbe disumano pretendere la nonchalance e l'impronta interpretativa del concertista scafato, ma questi musicisti hanno dato prova di concentrazione, solidità e sensibilità. In questo strano, ma affascinante miscuglio di scampagnata, visita guidata, pic nic, degustazione, concerto, in cui anche i diversi tipi di pubblico si mescolano, la formula di un'esibizione “autentica” e nel contempo libera, senza aria di saggio impettito, si è senz'altro fatta apprezzare. Speriamo che sia solo l'inizio per una bella comunione d'intenti e interessi fra le iniziative di queste valli.

Fra un concerto e l'altro, poi, una mattinata al Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto s'impone. Abbiamo visitato la storia delle valli dei mulini, ora ci immergiamo in una struttura moderna e ariosa, architettura contemporanea che lascia entrare dalle ampie vetrate il cielo limpido e gli scorci montani. C'è spazio, ben organizzato, per passare con agio attraverso diverse esposizioni temporanee, senza trascurare la collezione stabile che permette di scorrere, con alcuni pezzi di pregio, dal XIX secolo ai giorni nostri.

Fra le mostre in corso, vale la pena di non perdersi quella dedicata a Fortunato Depero (c'è tempo fino al 5 giugno). Parte del materiale era già accessibile in maniera permanente nella casa dell'artista, a pochi minuti dal Mart, ma l'allestimento gli dà vita nuova, lo spazio e l'attenzione che merita e che le stanze di una palazzina nel centro storico non possono garantire. Sulle grandi pareti scure trionfano gli arazzi sgargianti, così come si ammirano in tutto il loro splendore i costumi teatrali, le marionette, la ricostruzione della scenografia per i Balli plastici. Ci si trova completamente immersi in una dimensione giocosa e sperimentale, in cui lo straniamento insito nella poetica dell'artificiale antropomorfo o dell'umano meccanico si accentua al pensiero del contrasto fra il senso del fantastico espresso da Depero e il contesto storico in cui si muove, fra l'esaltazione bellica del Futurismo e il gusto divertito per l'invenzione fiabesca dell'artista roveretano. L'esposizione è, peraltro, affiancata a un'interessante sezione dedicata a Romolo Romani (1884-1916), precursore del Futurismo fra intuizione grafiche e figurative.

Di straniamento in straniamento, arriva a turbare la mostra Simbolismo e nuova oggettività. La galleria del Levante, che, seguendo la storia della galleria milanese, attraversa il '900 dalle inquietudini oniriche ed erotiche o dalle disturbanti idealizzazioni alla concretezza del realismo e dell'iperrealismo, dall'esplorazione di un male inconscio alla sua negazione deliberata, fra forma e contenuto, denuncia e vuoto esibito. Non manca di destare una certa angoscia – che fa il pari con quella destata da opere coeve nella collezione stabile – questo intreccio di opposti, specie quando si tocca con mano non solo la denuncia del male latente o montante, ma anche l'estetizzazione dello stesso, forme grafiche che si riflettono nelle foto di parate e istallazioni del Ventennio. Si esce con un peso, un peso che fa pensare.

Fa pensare, ma in altro modo, anche che spunti un'esposizione dedicata a Julius Evola, di cui non si sentiva la mancanza, ma di cui è comunque eloquente constatare l'inconsistenza ripetitiva delle tele astratte, la pochezza di quelle figurative, specie se impietosamente affiancate a Balla e Boccioni, Carrà e Sironi.

Passando fra i ricami vezzosi di Angelo Filomeno (che fa il paio contemporaneo con l'estetica decorativa di certo simbolismo) o curiosando fra le coloratissime Espresso and cappuccino cups (tanto pop da far pensare perfino alla tavola dei falsi e del vero Graal in Indiana Jones e l'ultima crociata, solo che qui il mistico contenuto è la nostra bevanda nazionale, croce e delizia di ogni italiano all'estero), arriviamo alle due ultime inaugurazioni, fresche fresche del 14 maggio. La forza del vero. I pittori moderni della realtà offre senz'altro uno spunto interessante nel confrontare il realismo del Novecento con quello dei secoli precendenti (Seicento in primis). Tuttavia, l'allestimento risulta un po' ripetitivo, accostare opere simili di epoche diverse ha il suo effetto, ma alla lunga genera più che altro la confusione di una massa indistinta di ritratti, nature morte, santi e peccatori che si somigliano un po' tutti fatti salvi, non sempre, gli abiti e gli arredi. Non mancano opere di valore che spingono a riflettere sul rapporto fra arte e oggetto, fra interpretazione e realtà, ma il complesso risulta meno incisivo rispetto a quanto lasciano percepire la collezione stabile, le mostre su Depero e su Simbolismo e oggettività. Pure, tout se tient: esposizioni diverse ma che andrebbero viste insieme, messe in dialogo l'una con l'altra, come sempre nell'arte. Lo conferma anche l'altro percorso tematico inaugurato sabato 14, quello dedicato allo statunitense Alex Katz. Dopo tante tensioni, allusioni ed elusioni, ecco che ci si sbattono in faccia colori pastello, visi dipinti con ingenuità più che naïf, campiture piatte, gruppi che sembrano manifesti di serie tv adolescenziali (non dell'era Netflix, ma dell'era Dawson Creek), e, viceversa, paesaggi essenziali dai colori puri, tempi sospesi, tramonti accesi, luci soffuse, piogge notturne. Sconcerta, quasi, questa esibita semplicità di volti sbilenchi e sembra una provocatoria reazione, una deliberata negazione (che quindi non nega, ma ribadisce) di tutta l'ansia e il turbamento accumulati in precedenza: dal gioco enigmatico di Depero, dagli incubi eroitici, dall'estetica del totalitarismo e dalla ribellione della denuncia, dall'interrogativo del reale arriviamo all'esaltazione del nulla bidimensionale color caramella: un punto di non ritorno? Continuiamo a pensare.

Passeggiando si pensa meglio. Abbiamo camminato parecchio sulle montagne fra boschi e valli (allusione non casuale, a Nogaredo prima di Brahms abbiamo incontrato un coro montanaro), ora passeggiamo nel centro di Rovereto, ricco dei memorie storiche con le sue targhe a ricordare passaggi illustri – non solo Mozart – e ricco di colori, con le antiche abitazioni che il clima consentiva di affrescare all'esterno, ma anche le nuovissime scale deperiane realizzate da docenti e studenti del liceo artistico locale. Aria di montagna, decori antichi, sgargianti esplosioni. E poi, a mezzogiorno, risuona ancora l'allarme antiaereo, così dalla Prima Guerra mondiale, così, ancora, terribilmente attuale.


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