L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Dritto al cuore

di Lorenzo Cannistrà

Elisso Virsaladze torna a Milano con un bellissimo recital nella sala Verdi del Conservatorio per Serate Musicali. L’ottantenne pianista georgiana, più in forma che mai, regala un saggio altissimo di sapienza musicale, lasciando una traccia indelebile in chi ha avuto la fortuna di ascoltarla

MILANO, 07/11/2022 – Questo recital di Elisso Virsaladze sarà difficile da dimenticare, per tanti motivi. Habituée di Serate Musicali, la pianista georgiana è una signora che porta benissimo i suoi anni e conserva una notevole efficienza fisica (non forse quanto Martha Argerich, ma poco ci manca). Imponente, vestita di scuro, immancabile caschetto di capelli neri, leggermente protesa in avanti, avanza sul palco della sala Verdi quasi in bilico sui tacchetti neri. Lo sguardo orientale, la mano portata vicino alla bocca ad ogni applauso, il sorriso caldo che si apre all’improvviso, rivelano una persona completamente votata al proprio mestiere e ancora felice di essere a contatto con il proprio pubblico.

Il programma proposto è frutto di una sensibilità musicale necessariamente affinata in decenni di esercizio dell’attività concertistica. Pezzi arcinoti, inanellati in un apparente disordine temporale, eppure qualcosa di unitario si scorge, più ancora all’ascolto che al semplice esame dei numeri di catalogo. Le due sonate “facili” di Beethoven, op. 49 n. 1 e op. 79, dischiudono un mondo fanciullesco, di tenerezza e gaiezza non ostentate, ma connaturate alla loro stessa sostanza musicale. Quel clima fatto di calda semplicità continua e si esalta nei Kinderszenen op. 15 di Schumann, trovando poi uno sfogo brillante e virtuosistico nel Rondò op. 129 (quello della collera per un soldino perso). La seconda parte presenta una coerenza non inferiore nell’accostamento dei brani scelti, ma l’intento appare diverso. Intanto la tonalità di fa maggiore/minore, che accomuna le Variazioni Hob. XVII:6 di Haydn, l’Andante Favori WoO 57 e l’Appassionata di Beethoven, con il solo salto rappresentato dall’Arabeske op. 18 di Schumann (nella dominante di do maggiore, in un rapporto armonico comunque lineare rispetto alle altre opere). Ad accomunare questi capolavori è anche però un riferimento, più o meno esplicito, al principio della variazione: a parte ovviamente Haydn, anche l’Andante Favori è costruito nella forma di un rondò, nel quale in ogni ripresa il tema principale viene variato sapientemente. La variazione ritorna poi nell’Appassionata, il cui Andante con moto presenta un tema di sapore popolaresco con tre variazioni. Esso fa da introduzione all’ultimo movimento, al quale si passa senza soluzione di continuità, come accade anche nell’Adagio molto che sostituì nella sonata Waldstein proprio l’Andante favori. Solo che mentre l’Adagio molto si integra alla perfezione con gli altri due movimenti della sonata, per via delle sue atmosfere suggestive (tanto da essere stato probabilmente la causa del soprannome “Aurora” poi affibbiato alla Waldstein), l’Andante con moto partecipa di qualche di qualche elemento di estraneità – caratteriale più che armonica – rispetto al resto dell’Appassionata. In questo senso esso è un perfetto pendant all’Andante favori, che venne addirittura estrapolato dalla versione originale della Waldstein a causa delle sue audacie armoniche o, come qualcuno dice, perché troppo lungo.

Ma d’altronde non è possibile entrare nella mente del singolo interprete per decifrarne le intenzioni, quindi siamo costretti ad indovinare, come la Storia di manzoniana memoria. Altrettanto difficile però è anche parlare del modo in cui la Virsaladze ha suonato questa sera, e ciò non perché l’ascoltatore sia stato messo in difficoltà da un’interpretazione contraddittoria, ma perché è arduo stavolta raccontare la bellezza tutta particolare della sua arte pianistica.

Quello che mi sento di dire è che raramente all’ascolto di un interprete, anche celebrato, ho potuto constatare tanta sincerità, immediatezza, e mancanza di filtri derivanti dalle accortezze del mestiere o dal semplice ego. Ne è risultato un messaggio arrivato direttamente al cuore, perché la pianista riesce ad arrivare subito alla sostanza musicale, seppur attraverso la propria peculiare sensibilità musicale.

Si possono tuttavia fare dei distinguo lungo tutta l’ora e mezza abbondante di musica ascoltata. La Virsaladze è celebrata come interprete schumanniana: tenero e caldo, sebbene essenziale, questo Schumann non eroico e privo di turbolenze è sembrato però (soprattutto nell’Arabeske) meno interessante del suo Beethoven, con il quale la pianista ha mostrato di aprirsi, o meglio di “accendersi” di più. Meravigliosa la semplicità e l’equilibrio dell’op. 49 n. 1, il cui primo tempo è stato nobile senza essere pesante, quanto il secondo scoppiettante ma senza banali ammiccamenti. L’op. 79 è un pezzo che sotto le mani della Virsaladze ha perso ogni ruvidità, ogni residuo di carattere rustico, pur mantenendo la gaiezza di una breve kermesse popolaresca. Miracoli poi nel Rondò op. 129: qui oltre all’arte si è assitito anche una lezione molto particolare di tecnica pianistica. Frotte di studenti avrebbero potuto apprezzare e capire che virtuosismo non significa sempre e necessariamente forza, rigore, metallico clangore di quartine ben accentate. Il pezzo in questione è pieno di scale e passaggi di accordi, equamente divisi tra mano destra e sinistra mentre il tema della “rincorsa” zampilla felice, ma con la pianista georgiana tutto ha una morbidezza di contorni che esalta la musica prima della tecnica. E’ qualcosa invero difficile da descrivere, e solo la parola “classe” può sottolineare ciò, senza tuttavia spiegarlo.

La seconda parte conferma ciò che si avverte nella prima, e cioè che in Beethoven la Virsaladze trova un’ispirazione grandiosa, arricchita da colori inusitati nelle riproposizioni variate dell’Andante favori. Nella sua Appassionata troviamo poi ulteriori spunti di riflessione. Mentre le Variazioni di Haydn sono giustamente sfumate, umbratili, rinunciatarie anche nei momenti di maggiore impegno pianistico, altro è il principio guida dell’altro capolavoro in fa minore, nel quale la pianista si esalta specialmente nel primo movimento. La Virsaladze sembra consapevole che l’Allegro assai è un pezzo molto difficile da tenere insieme, a causa di una scrittura rivoluzionaria, frastagliata. L’imperativo della pianista sembra invece quello di evitare ogni effetto di stop-and-go disegnando un’intero arco che abbraccia tutto il movimento, evitando ogni indugio che la scrittura pur suggerirebbe in determinati punti nevralgici. Ne esce il tipo di esecuzione che di questo indimenticabile primo movimento io preferisco: accesa, potente, senza soste, con una tensione che non viene sciolta ma che al contrario viene esaltata dall’interpretazione monolitica. Il terzo movimento segna lo disgregamento di quella enorme forza a stento trattenuta, e in questo moto perpetuo la Virsaladze bissa, ad un livello ancora più alto, la lezione dispensata nel Rondò che aveva brillantemente chiuso la prima parte di questo mirabile recital.


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