L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Novecento alla Scala

di Francesco Lora

Peter Grimes di Benjamin Britten e L’amore dei tre di Italo Montemezzi precedono l’inaugurazione della nuova stagione del Teatro alla Scala. In entrambe spiccano l’orchestra, il coro e la concertazione di Simone Young e Pinchas Steinberg, rispettivamente, a fronte di lavori di regìa minori, benché firmati da Robert Carsen e La Fura dels Baus. Quanto al canto, Britten registra il primato del soprano Nicole Car e dei caratteristi Peter Rose e Natascha Petrinsky, mentre Montemezzi trova il buon lavoro di squadra tra Evgeny Stavinsky, Roman Burdenko, Giorgio Berrugi, Giorgio Misseri e Chiara Isotton.

MILANO, 27 e 28 ottobre 2023 – Nella penna è rimasta un po’ troppo a lungo la recensione di due spettacoli al Teatro alla Scala: Peter Grimes, opera di Benjamin Britten, con sei recite dal 18 ottobre al 2 novembre, e L’amore dei tre, opera di Italo Montemezzi, con cinque recite dal 28 ottobre al 12 novembre; si tratta, dunque, di due opere del secolo scorso – 1945 e 1913, rispettivamente – e di due nuovi allestimenti quasi simultanei, parlando dei quali si può anche fare neutralmente un punto della situazione artistica sul più famoso, ricco e altero teatro d’Italia: l’inaugurazione della nuova stagione è ormai dietro l’angolo, e gli assi calati il 7 dicembre muteranno assai lo sguardo sulla partita.

Quanto alla locandina britteniana, a dominarla è il nome del regista Robert Carsen, scortato da Gideon Davey per le scene e i costumi, da Peter van Praet e da sé stesso per luci, da Ian Burton per la drammaturgia, da Will Duke per i video e da Rebecca Howell per la coreografia. Si vede la mano del grande maestro soprattutto nel disinvolto movimento delle masse e nel non perdersi dietro troppe idee. Il problema, però, è che l’idea rischia davvero di essere una sola, di non bastare – benché forte – a fare il dramma, e insomma di denotare un Carsen vero ma minore: l’azione inizia in un tribunale di villaggio e si muove in quello stesso contenitore scenico soggetto a trasformazioni; quando il sipario sta per calare, è come se si ricominciasse: finita la storia di Peter il pescatore, capro espiatorio delle turbe paesane, riecco lo stesso tribunale e l’orologio che segna la stessa ora mattutina; un nuovo Grimes sta per essere giudicato, come domani, come ieri e come sempre. È una lettura secca e cruda, intenta alla società e non alla persona, nella quale si coglie il messaggio e tuttavia non ci s’immedesima mai, soprattutto dopo aver archiviato nel cuore analisi arci-poetiche come quella di Christof Loy per il Theater an der Wien.

Il tenore protagonista, Brandon Jovanovich, ci mette del proprio: non reca con sé l’enigma di Peter Pears, né il dramma di Jon Vickers, né l’analisi di Philip Langridge, né la tenerezza di Joseph Kaiser; dà invece luogo a un personaggio davvero rozzo, balzano, squallido, antipatico, imprevedibile, dalla modulazione violentemente alternata, intorno al quale non sorprende affatto la diffidenza dei paesani. L’interprete lascia un segno modesto, ma la caratterizzazione fa pensare: come Giuseppe Verdi insegna, il teatro contemporaneo, compreso quello d’opera, è popolato da pochi eroi effettivi, da ammirare, e da molti poveri diavoli, da compatire. Come Ellen Orford, il soprano Nicole Car agisce con angelica, luminosa divinità di gesto e di canto: agevolata dalla lingua madre, procura la più alta opinione a sé stessa e allo spessore morale della parte affidatale. Come Captain Balstrode, per contro, il baritono Ólafur Sigurdarson non è all’altezza né dell’amorevole personaggio, né di un pubblico che conosca un energico Mark S. Doss o un lussuoso Simon Keenlyside. Il comprimariato, corretto, langue nello spirito là ove dovrebbe essere una galleria memorabile di caratteristi e cammei: lo straripante Swallow di Peter Rose e la morbosa Mrs. Sedley di Natascha Petrinsky, manco a dirlo, non faticano a imporvisi con favoloso peso doppio.

Per prestanza tecnica e duttilità retorica, impressionano più d’ogni altro aspetto l’orchestra e il coro della Scala: si affidano con benvenuto entusiasmo alla concertazione asciutta ed efficace di Simone Young, la direttrice australiana che nel massimo teatro milanese non è certo arrivata con le quote rosa, bensì con le referenze di chi sa conferire norma e forma a organici importanti e testi cruciali.

Simili ai parametri di tale Peter Grimes paiono quelli del contiguo Amore dei tre re, con tutto che si tratti del travagliato recupero di un allestimento cancellato nel 2020. Si coglie distintamente come la programmazione di tale titolo – mantenuto nel repertorio corrente soprattutto grazie all’appendice operistica della Garzantina musicale: non di più – corrisponda a un’intenzione della passata direzione scaligera, e come quella attuale abbia dovuto faticare onde mantenere appetitoso un progetto non proprio. Nel frattempo, sono venuti meno due direttori designati (Carlo Rizzi e Michele Mariotti) nonché quattro su sei cantanti principali coinvolti (Ferruccio Furlanetto, Roberto Frontali e Federica Lombardi, poi anche Günther Groissböck).

Fatto curioso, la parte di gran lunga meno riuscita è l’allestimento collettivamente firmato dalla Fura del Baus, cui pure non sono mancati tre anni di bonus utile ad affinare la lettura teatrale proposta. Regìa di Àlex Ollé, regìa di Alfons Flores, costumi di Lluc Castells e luci di Marco Filibeck: tutto consiste, in verità, in un’installazione di dieci chilometri di catene, le quali pendono dal soffitto evocando il castello-prigione del re Archibaldo; bello, ma non basta a costituire uno spettacolo compiuto, su misura per la Scala, né a restituire l’atmosfera ammalata, decadente e mutevole di quest’opera dalle pretese simbolistiche.

Chi invece sa recare ogni più perfetta pennellata, sfumatura o sferzata, con immediata intuizione della sostanza testuale, è il concertatore Pinchas Steinberg, contornato da un’orchestra e un coro ancora una volta in stato di grazia. Penoso è il fatto che si accorpino gli atti I e II, che s’interponga un intervallo di venticinque minuti e che si passi infine a un atto III altrettanto breve: la direzione di Steinberg è per l’appunto così fervorosamente tesa e così carica di narrazione da far desiderare un trattamento da atto unico e lo svolgimento a una sola campata.

Valida la compagnia di canto, benché esemplifichi un paradosso ormai vistoso per tutti: le fondazioni liriche paiono sempre più riferirsi a un mercato da teatro di tradizione, mentre i teatri di tradizione ostentano i nomi massimi degni di una fondazione lirica. Al dunque: il basso Evgeny Stavinsky, come Archibaldo, non avrà il carisma di Roberto Scandiuzzi al Regio di Torino nel 2005, ma vanta comunque l’esotico spettro timbrico degli slavi; il baritono Roman Burdenko, come Manfredo, coglie qui la sua più equilibrata, sollecita, idiomatica e persuasiva prova da che s’è affacciato alle scene operistiche italiane: benissimo; i due tenori Giorgio Berrugi e Giorgio Misseri, come Avito e Flaminio, sono gli unici due rimasti al loro posto dal 2020 e fanno valere l’uno il naturale impeto amoroso, l’altro il porgere sottile di chi serve e inganna; il soprano Chiara Isotton, infine, come Fiora, è l’unica ma eccellente presenza femminile di peso: senza verun vezzo antiquario da diva dannunziana, s’inserisce nel lavoro di squadra, cavalca l’orchestra di Steinberg, si esprime con semplicità di fanciulla e insieme onora con saldo e sonoro calibro la sala piermariniana. Sicché, senza troppo curarsi della Fura del Baus al proscenio, gli applausi piovono abbondanti e tutti meritati.


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