L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Russi allo specchio

di Alberto Ponti

Un successo eclatante e indiscusso arride all’attesa venuta sotto la Mole di Antoine Tamestit, protagonista del difficile e insidioso Concerto per viola di Schnittke, bissato nella seconda parte della serata da uno sfolgorante Sacre du printemps sotto la bacchetta di Robert Trevino

TORINO, 27 aprile 2023 - Un auditorium Toscanini particolarmente affollato ha accolto giovedì 27 e venerdì 28 aprile una star del calibro di Antoine Tamestit, tra gli interpreti di riferimento internazionale per uno strumento come la viola, essenziale nella composizione dei gruppi cameristici e delle orchestre sinfoniche ma assai più castigato nel repertorio solistico rispetto ai parenti stretti violino e violoncello. Una fetta importante del pubblico accorso in via Rossini era costituita da giovani, richiamati da un programma, soprattutto nella prima parte, non facile né scontato ma di grandissimo fascino per quanto riguarda la comune matrice russa di una coppia di autori approdati in tempi diversi a esiti artistici in apparenza distanti tra loro ma non scevri di convergenze: Igor Stravinskij e Alfred Schnittke.

Nelle Symphonies d’instruments à vent composte nel 1920 in memoria di Claude Debussy sale in cattedra Robert Trevino, direttore ospite principale dell’Orchestra Sinfonica Nazionale, scalpellando i due brevi movimenti del pezzo, limitato nell’organico a soli 23 elementi tra legni e ottoni, con l’icastica essenzialità di un’epigrafe antica. Stravinskij, nei cui confronti Debussy ebbe un’ammirazione autentica non disgiunta da alcune riserve personali dovute a profonde differenze caratteriali e visioni diverse di vita, omaggia il collega scomparso due anni prima con una pagina che il dedicatario avrebbe apprezzato. Trevino riesce ad ottenere dal gruppo di fiati un suono penetrante, graffiante, a tratti ruvido senza mai essere stridulo. Non siamo più nella Parigi tra le due guerre né nella Torino del 2023, non esiste ponte tra presente e passato: c’è un impasto sonoro semplice, primordiale ed eterno, una musica che potrebbe aleggiare tra le colonne di un tempio greco o perdersi sulle sabbie di Marte. D’altronde lo stesso Debussy, che aveva capito tutto, individuava questa vena di Stravinskij già nel misconosciuto Le Roi des étoiles, parlando di platonica armonia delle sfere e di esecuzione adeguata che avrebbe potuto aver luogo, forse, su Sirio o Aldebaran.

Il concerto per viola e orchestra (1985) di Schnittke, tenuto a battesimo da Yuri Bashmet, è un altro brano che, come buona parte della produzione dell’autore, sfugge a un preciso tentativo di classificazione, approdando, all’insegna di un conturbante eclettismo stilistico, a risultati di indubbia potenza espressiva. C’è un solista cui viene demandato, più che uno scoperto virtuosismo, il mantenimento di un arco emotivo carico di tensione dalla prima all’ultima nota. C’è una grande orchestra, mancante di violini, impegnata in un minuzioso lavorio sotterraneo di sviluppo e scambio di idee tematiche con il protagonista, che si muove spesso in un territorio ai limiti del silenzio salvo erompere in apocalittiche esplosioni subito destinate a spegnersi nel pulsare di una scansione ritmica rigorosa e inesorabile. Tamestit conferma la fama di esecutore di altissimo livello, sfoderando una prestazione superlativa, esemplare per gamma timbrica e controllo tecnico, librandosi con sorprendente facilità da attacchi cavernosi con note sotto il rigo ad altezze celestiali raggiunte in poche arcate. Non è però solo la giusta interpretazione delle intenzioni del compositore a rendere questa performance formidabile quanto anche la capacità di creare un dialogo con il pubblico in un concerto contemporaneo di notevole ampiezza e complessità. Una partecipazione palpabile teneva la sala col fiato sospeso durante le due estese cadenze che aprono primo e terzo movimento, due drammatici Largo a incorniciare un tempo veloce centrale indicato con Allegro molto, in controtendenza rispetto alla forma tradizionale. Pure in questo movimento, sulla carta il più impegnativo tra pizzicati, note ribattute a grande velocità e repentini cambiamenti espressivi con la parte centrale contrastante di chiaro sapore tonale che emerge inaspettata con un timido trillo dopo un’inesorabile sequenza di scariche percussive, il violista francese rischiara da artista di razza il percorso dalle tenebre alla luce. Tra ovazioni da evento sportivo, è illuminante l’encore della Sarabande dalla seconda Partita per violino di Bach il cui canto, nel registro più rotondo e ambrato della viola, si arricchisce di sfumature e vibrazioni inedite.

Trevino è partner ideale in una partitura che richiede insieme attenzione e discrezione, dove l’orchestra c’è eccome ma deve essere concertante in senso letterale. I temi sono esposti dal solista ma vengono di continuo ripresi e trasfigurati da piccoli gruppi di strumenti in un moto incessante, destinato a scaricarsi con fulminea precisione in sporadici e fragorosi fortissimo.

La medesima violenza percussiva si ritrova in un’opera manifesto del XX secolo, la cui seduzione subì anche Schnittke, quale Le Sacre du printemps ancora di Stravinskij. Sulla pagina capitale, nata in veste di balletto nella Parigi del 1913, in oltre un secolo si sono riversati fiumi di inchiostro. La lettura del direttore texano è elettrizzante, tra le migliori in cui ci siamo imbattuti negli ultimi tempi, e non solo per la perfetta scansione ritmica, la precisione degli attacchi, il lineare intersecarsi delle molteplici linee melodiche e armoniche di una scrittura che rimane tra le più difficili da sviscerare all’interno del repertorio corrente. Sotto la bacchetta di Trevino i grandiosi e terribili quadri della Russia pagana prendono vita in una rappresentazione di autentico spettacolo sonoro che prescinde da qualsiasi rappresentazione scenica. Lo stesso fenomeno che, mutatis mutandis, si verifica in Verdi dove il teatro è certamente necessario complemento, mai completamento di un atto musicale già compiuto sul fronte del gesto. Assistiamo così al delirio incantatorio e magmatico degli Augures printaniers e del Jeu des cités rivales, al movimento ipnotico e sensuale dei Cercles mystérieux des adolescentes, alle vampate detonanti della Danse sacrale terminale. Grande merito va all’Orchestra Sinfonica Nazionale, con una prova che la pone senza sfigurare all’altezza delle migliori compagini nazionali ed europee, sia per qualità delle singole parti, a lungo applaudite una ad una al termine della serata, sia per la coesione dell’insieme che ha reso il concerto uno tra gli eventi più riusciti ed apprezzati dal pubblico dell’intera stagione.


 

 

 
 
 

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