L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Lo spirito della natura

 di Stefano Ceccarelli

L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, come anche l’orchestra e le maestranze tutte, sono ben contente di accogliere, ancora una volta, Myung-Whun Chung, che della massima orchestra capitolina è stato, a lungo, direttore stabile (1997-2005). Chung dirige un programma che immerge il pubblico in alcune delle pagine più belle della storia della musica: la Sinfonia n. 6 “Pastorale” in fa maggiore op. 68 di Ludwig van Beethoven e Le sacre du printemps di Igor Stravinskij.

ROMA, 11 gennaio 2024 – Cosa accomuna due opere così distanti come la Sesta di Beethoven ed il Sacre di Stravinskij? Certamente, l’evocazione della natura in musica: placida, arcadica nel primo caso; violenta, primordiale, ferina, nel secondo. Myung-Whun Chung accompagna, dunque, il pubblico attraverso un viaggio a contatto con la natura, ovviamente in musica, e lo fa attraverso un programma equilibrato e accattivante, dirigendo due dei capolavori assoluti della storia della musica.

Si inizia, nel primo tempo, con la dimensione arcadica: la Sinfonia n. 6 “Pastorale” in fa maggiore op. 68 di Ludwig van Beethoven. La direzione di Chung è controllata, senza mai essere banale. Il suo gesto è essenziale, ma molto espressivo. La musica di Beethoven ne acquista in uniformità, ‘morbidezza’, nel senso che gli attacchi, i passaggi, non sono mai bruschi, strappati, pur non perdendo la loro carica e vitalità. Ciò è evidente già nel I movimento, l’Allegro ma non troppo: Chung è molto sensibile alla circolarità delle strutture, che Beethoven sa sfruttare (e nella Sesta si nota molto) per dare quel senso, inconfondibile, di varietà, senza mai far perdere l’orientamento all’ascoltatore. Il tema principale del I risulta placido, ma ben ritmato, zampillante, come tutto lo sviluppo. Chung è abile a mantenere nitida l’impalcatura orchestrale di accompagno sulla quale si appoggiano, vellutati, gli archi. L’effetto è ancora più nitido nel II movimento (Andante molto mosso), dove Chung non chiede un rigore millimetrico ai fiati e agli ottoni, per conferire un’impressione più naturale, meno artificiosa. L’impasto di archi e legni crea un’atmosfera acquatica ottimamente riuscita, dove la ricerca agogica e sonora di Chung raggiunge il suo massimo risultato. Il celebre passaggio dei tre fiati (flauto, oboe e clarinetto) è di immediatezza fresca: specialmente il flauto riesce a mimare straordinariamente il verso dell’ usignolo. Nel III (Allegro) Chung mostra ancora una volta di cosa è capace quando si tratta di rendere plastica, vivida la partitura: il tema villereccio incanta per la semplicità, mentre il Trio fa venir voglia di battere i piedi a tempo. Di ciò che sarà Le sacre si ha un assaggio nel Temporale. Chung infonde ritmo ed energia, senza mai slabbrare l’agogica: da questo deriva l’energia, appunto, che rende giustizia a una pagina memorabile, non solo per il vortice sonoro, quanto anche per il trapasso dalla tempesta al sereno, che giunge ancora tremolante di tensione. Del IV (Allegretto), Chung propone una lettura luminosa, quasi mistica, allargando il suono e chiudendo il movimento a mani giunte. Il suono dell’orchestra è magnifico. Gli applausi sono fragorosi, a dir poco.

Le sacredu printemps di Igor Stravinskij, la seconda parte del concerto, è un esplosivo concentrato di vigore, che Chung sprigiona, sempre a suo modo. Nel Sacre si vede l’abilità del direttore di mantenere il suono leggero pur scatenando l’orchestra, il che dà un effetto di rarefazione anche nel pieno della brutale scrittura stravinskiana. Il frullo degli archi è leggero come il battito delle ali di un colibrì, anzi di centinaia di colibrì: se ne sente netta la vibrazione, ma il suono non arriva. L’incipit del Sacre, con l’assolo del fagotto, è anch’esso di grande naturalezza, come l’assolo dei legni nella Sesta; Chung gli dona un certo abbrivio, senza soffermarsi troppo. Poi, la scrittura stravinskiana viene spaginata in tutta la sua brutalità, come pure nella sua ipnotica stasi. In ambedue i casi, nei momenti di più efferata energia (per esempio, i due finali, della I e II parte), come pure in quelli più ipnotici, dati da cellule ritmiche ripetute misticamente, spezzate, poi riprese, Chung mantiene uno stretto controllo, sempre riuscendo ad ottenere quell’amalgama netto, ma mai rigido, che è la sua caratteristica firma. Durante gli applausi, ex abrupto, il direttore bissa il finale I, la rutilante “Danza della terra”, che manda in delirio il pubblico.


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