L’Ape musicale

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di Luca Fialdini

Applaudito concerto con Marie-Ange Nguci e Alexander Briger per la stagione dell’Orchestra Sinfonica di Milano tra Mozart e Brahms

MILANO 26 gennaio 2024 – Per quanto possano essere distanti nella cronologia e nelle intenzioni, il Concerto per pianoforte e orchestra n. 27 in sib maggiore KV 595 di Mozart e la Sinfonia n. 4 in mi minore op. 98 Brahms condividono un importante tratto in comune: per entrambi i compositori si tratta dell’ultimo lavoro nei rispettivi generi e la proposta dell’Orchestra Sinfonica di Milano apre per forza di cose una relazione fra i due titoli. Nonostante le ovvie divergenze, fra i due poli del programma esiste anche un collegamento più sottile che è l’effettivo fil rouge e l’effettivo punto di interesse, perché sia nel Concerto sia nella Quarta è tangibile un senso di conclusione che in base all’autore possiede presupposti specifici e raggiunge determinate declinazioni.

Il Concerto n. 27 è di gran lunga il più triste fra quelli di Mozart. La scrittura, molto più semplice rispetto ai precedenti, fa supporre che la destinazione fosse riservata a un buon dilettante e in ogni caso non al compositore stesso (la riprova è che la presenza delle cadenze scritte); nella partitura non c'è niente, nessuna grande forma, nessun trattamento originale della strumentazione, solo un'eterna aura cameristica a cui il pianoforte risponde con atteggiamenti sonatistici, arrivando nel secondo movimento quasi alla sonatina. Eppure, sotto la pelle di un'ostentata ingenuità, c'è una rete di connessioni in cui è difficile mantenere l'orientamento. Se è già inconsueto che la stesura sia iniziata nel 1788, interrotta e completata tra il '90 e il '91 – quasi inconcepibile per i ritmi del salisburghese – il fatto che l'intero Concerto sia costruito sulle autocitazioni rende il tutto ancora più strano: non che Mozart non le usasse, beninteso, ma i casi in cui ne fa un impiego sistematico si contano sulle dita di una mano e soprattutto non esistono altri casi in cui ne faccia quasi la raison d'être di una composizione intera.

Nel primo movimento si possono trovare facilmente almeno quattro elementi importati da lavori precedenti: la scalettina sopra la cadenza d'inganno che arriva direttamente dal primo movimento del Concerto n. 12 in la maggiore, la scala cromatica in scansione semiminima-pausa-cinque crome dal primo movimento del Concerto n. 20 in re minore, un crescendo che è una citazione letterale alla Sinfonia n. 40 e delle piccole fanfare che sanno tantissimo di Jupiter (queste ultime nate entrambe nel 1788, insieme all'inizio della prima stesura del Concerto). Il tema del secondo movimento è un motivo che si trova continuamente nella musica del tardo Settecento, è lo stesso impiegato da Haydn nel secondo movimento della Sinfonia n. 100 "Militare", nella Sonatina in sol maggiore a volte attribuita a Beethoven e in seguito dallo stesso Mozart nell'Andante KV 616, mentre il terzo movimento si basa tutto sul Lied Sehnsucht nach dem Frühling («nostalgia di primavera») e in effetti tutto il lavoro è impregnato di un senso di nostalgia. Intenzionale o meno, è l'espressione di una persona che si volta indietro e fa un bilancio del proprio percorso, ma con un sentimento di congedo («Ich bin der Welt abhanden gekommen», «sono perduto al mondo»). C'è molta stanchezza in queste pagine, in particolare nel finale che – come nell’Entführung, in Nozze, Don Giovanni e Così fan tutte, ad esempio – nasconde il vero significato dietro gesti vivaci, e tutto è saturo di quel sentimento di congedo senza addii come dev'essere sembrato già nella prima esecuzione del 1791 in una casa situata, quasi simbolicamente, in Himmelpfortgasse: la via alla Porta del Cielo.

Nell’esecuzione di Marie-Ange Nguci manca del tutto questa consapevolezza. La tecnica è eccellente così come il controllo dello strumento è indiscutibile, ma il tocco, il colore del suono, l’uso del pedale e l’intenzione sono completamente inadeguati a quel che deve essere lo spirito di questo Concerto e il pianismo mozartiano tout court (anche se nel secondo movimento ci sono molte buone idee). C’è anche la mancata comprensione degli interventi concertanti, resi come passi virtuosistici dal sapore para-romantico; è evidente che Nguci non è ancora pronta per Mozart. I due bis proposti – un estratto dal Concerto per la mano sinistra di Ravel e la Toccata dai 6 Études op. 111 di Camille Saint-Saëns – chiariscono significativamente la questione: autentici pezzi di bravura, vedono una lettura animata e un’interpretazione con vero gusto. Sembra pacifico poter affermare che Nguci si trova in quella fase della carriera in cui ha bisogno di correre a briglia sciolta e di misurarsi con un repertorio tecnicamente impegnativo; lo scavo e l’introspezione forse arriveranno dopo, ma al momento è senz’altro più vicina al repertorio otto-novecentesco.

Bene la direzione di Alexander Briger, che sceglie per questa partitura un approccio brillante ma comunque intenso, atto a mettere in luce le molte complessità che Mozart racchiude nel suo ultimo concerto per tastiera. Si nota fin da subito anche la bella affinità tra Briger e l’Orchestra Sinfonica di Milano; quest’ultima, trovandosi sul leggio una partitura relativamente semplice si concentra sullo scavo timbrico e coloristico, raggiungendo risultati ragguardevoli in particolare negli impasti degli strumenti a fiato e nella combinazione di questi con il pianoforte, una soluzione che prefigura felicemente le intuizioni di Stravinskij posteriori di oltre centotrent’anni.

Ma l’orchestra e il suo direttore danno il meglio nella corposa Quarta Sinfonia di Johannes Brahms. Scritta a cinquant’anni (anche se tutti ce lo immaginiamo più vecchio) è l’ultimo lavoro sinfonico del suo catalogo; sulla superficie sembra poco affamato di novità e magari timoroso di sperimentare, nulla di più lontano dal vero. Come nel Concerto di Mozart, anche in queste pagine appaiono tanti fantasmi ma di natura molto diversa: Brahms sente il peso della Storia, in particolare il confronto con Beethoven, avverte il cruccio della forma che è la vera angoscia dei compositori del XIX secolo e per di più sente di essere alla fine di un ciclo. Il risultato è un impianto formale tutto sommato convenzionale ma attraversato da procedimenti di incredibile novità perché se la ripresa non letterale era qualcosa di più che assimilato nel 1885, la presenza di motivi trasversali che trapassano verticalmente le pieghe della partitura sono gli alfieri di un’idea che sarebbe stata sviluppata solo dai compositori nati in quegli anni, in testa Schönberg, Bartók e Stravinskij: per non fare che due esempi, il celeberrimo motivo di terze e seste del primo movimento ricompare trasportato in una delle variazioni della passacaglia finale e il tema stesso della passacaglia è anticipato in una coda del terzo movimento.

C’è molto Beethoven in questo addio al mondo sinfonico, la penna corre sotto lo sguardo vigile di Mendelssohn e Schumann, ma questo non faccia pensare a una scrittura “alla maniera di”: Brahms non è un imitatore, assorbe gli stimoli esterni e ne propone una personalissima interiorizzazione; non intende superare ma tracciare un’altra via, la sua via.

È questo quel che emerge dalla lettura appassionata di Alexander Briger e da una Sinfonica di Milano in stato di grazia. Nel primo movimento si può quasi toccare il rigore costruttivo che dipana da quelle dolenti diadi intonate dai violini a cui si intrecciano gli interventi degli strumenti a fiato come fanfare militari, i due elementi con cui Brahms erige la sua cattedrale, ma non ne avvertiamo mai il peso o la ponderatezza.

Strepitoso il memorabile attacco del secondo movimento, che la Sinfonica infonde di una straordinaria grazia alata ed evoca la suggestione del modo frigio. L’incipit è solo la prima delle tante immagini infrante che popolano questo momento della Quarta, un discorso condotto in modo apparentemente frammentario dall’autore e che nel gesto di Briger acquisisce un alone dialogico, mentre l’orchestra rende in modo impeccabile la trasparenza tipicamente brahmsiana della scrittura. Lo stesso nitore caratterizza il celeberrimo Allegro giocoso, uno Scherzo che finge di non esserlo e con astuzia anti-beethoveniana viene infatti ricollocato nella sede originaria del minuetto, invece che come secondo movimento come accade nella Nona.

La prova più ardua è racchiusa nel quarto e ultimo movimento della sinfonia, dove fantasmi e ricordi acquisiscono nuova corporeità. Il tema è tolto dalla Cantata Nach dir, Herr, verlanget mich BWV 150 di Bach, le variazioni sono trentadue come nelle 32 variazioni in do minore WoO 80 di Beethoven, l’intero movimento finale è in forma contrappuntistica da vero tedesco del nord della genealogia di Bach e Händel, come inoltre accade nella Jupiter di Mozart e ancora nell’Eroica di Beethoven ma soprattutto è una passacaglia come avviene nella conclusione delle Variazioni su un tema di Haydn, il suo primo lavoro sinfonico importante. Come nel caso di Mozart, anche Brahms misura i passi con il proprio passato e in qualche modo sembra redarre un bilancio.

Quel che Briger riesce a ricavare da questo è uno scenario vertiginoso in cui il perfetto rigore dell’Orchestra Sinfonica di Milano è mirabile esempio di comunicazione espressiva, di compattezza di suono e intenzione, di pulizia nell’intonazione. Una menzione speciale la merita senza dubbio la timpanista Viviana Mologni, senza la quale la Sinfonica perderebbe parte del suo suono caratteristico.


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