L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Doppio sguardo

di Luca Fialdini

Lunghi applausi per Edgar Moreau e l’Orchestra Sinfonica di Milano diretti da Kolja Blacher in un concerto tra Haydn e Čajkovskij.

MILANO 09 febbraio 2024 – Come per lo scorso 26 gennaio, anche in questo nuovo concerto dell’Orchestra Sinfonica di Milano si accosta un titolo del XVIII secolo a uno del XIX e sempre rispettivamente concerto contro sinfonia, un’esplorazione ancora una volta orientata alla civiltà strumentale.

In questo caso il Settecento è rappresentato da Haydn con il Concerto per violoncello e orchestra n. 2 in re maggiore Hob. VII b/2, una veste insolita sotto diversi punti di vista: Haydn viene indicato – a ragione – come padre della sonata, del quartetto e della sinfonia, quella del concerto è una forma dove la sua penna è stata meno incisiva e non ha mai trovato un terreno fertile di ricerca e sperimentazione (al contrario del Mozart dei concerti per pianoforte, ad esempio) e in effetti il Secondo concerto per violoncello rinuncia all’elaborazione di stampo sonatistico preferendole espansioni ornamentali sorrette da schemi armonici semplici tanto quanto l’orchestrazione; peraltro questa prevede una sezione di strumenti a fiato piuttosto ridotta con solo due oboi e due corni segnati in partitura e due fagotti presupposti a raddoppiare la linea del basso, una vestigia del tardo barocco che ancora sopravviveva nel 1783. Altro dettaglio insolito, e che forse in passato ha contribuito a creare dubbi ormai chiariti sull’attribuzione, è l’insistenza del violoncello sul registro acuto che sfocia negli armonici di mi e sol che Haydn impiega per l’effetto indicato in partitura come «flautino»; una tessitura impegnativa presumibilmente creata per la tecnica di James Cervetto, il primo esecutore del concerto.

Edgar Moreau raccoglie lo stesso guanto di sfida lanciato a Cervetto a distanza di duecentoquant’anni e nella lettura privilegia un colore più vicino alla camera che al concerto (come suggerisce l’orchestrazione stessa, del resto), quel tipo di intimità che spinge alla confidenza, al ricordo di aneddoti e fattarelli divertenti, muovendosi su una linea così sottile da rendere difficile capire dove il compositore sta scherzando e dove no.

Nel primo movimento la direzione di Kolja Blacher evoca l’aura garbatamente poco formale di questo Allegro moderato a doppia esposizione e Moreau fa di tutto per cavare dal suo strumento la leggerezza del violino e soprattutto non appesantisce mai l’esecuzione con prepotenti focus sulla tecnica, i suoi sforzi sono tutti consacrati al risultato musicale. In generale di Moreau si apprezzano molto il legato, il bel suono mai affettato e il gusto per cadenze senza eccessi, nemmeno nella durata. È resa molto bene e con equilibrio la fusione tra solista e orchestra che rappresenta la vera novità per Haydn in questo concerto, dato che il precedente Concerto per violoncello n. 1 in do maggiore Hob. VII b/1 restava ancora arroccato sulla scansione dialogica barocca fra i due protagonisti, in particolare gli sforzi congiunti di direttore e solista realizzano un efficace mimetismo del violoncello con il gruppo dei violini.

Tanto intenso quanto alato il breve Adagio, appena 65 battute, che svela la duttilità della scrittura haydniana: vengono mantenute le educate fioriture già udite nell’Allegro ma con il metronomo più lento subiscono un radicale cambiamento di identità, prima agilità ora moti d’espressione. Effettivamente esistono molti legami fra i due movimenti, senz’altro nei colori e nelle intenzioni della scrittura, ma soprattutto attraverso gesti e figure caratteristiche (la quartina di sedicesimi acefala con il salto di terza al basso o le piccole discese di biscrome, ad esempio); in un certo senso questo secondo movimento prosegue, ampliandolo, il discorso enunciato dal primo e nella lettura di Blacher si apprezzano i chiaroscuri – per non dire le ombre – di questo la maggiore apparentemente così quieto ma pervaso dalle tensioni delle continue modulazioni.

Se nella globalità della partitura Moreau dimostra il massimo ossequio per il segno scritto, si prende alcune libertà nel Rondò aggiungendo alcuni passi concertanti di tradizione, senza però turbare il tono di danza dal sapore vagamente popolare (l’occasionale bordone dei corni porta decisamente su quella strada). Il carattere frizzante fornisce l’occasione per allentare un po’ il nodo della cravatta ma sempre senza esibizionismo tecnico e ancora una volta si può ammirare la splendida intonazione del violoncellista.

Molto bene anche l’Orchestra Sinfonica di Milano, che compone un quadro sonoro eccellente per evocare l’esatto colore strumentale che Haydn cerca in una formazione usuale letta attraverso un trattamento non scontato. Delicatissimo il raddoppio dei fagotti al basso, così come si propongono delicatamente cesellati gli interventi delle coppie di oboi e di corni, e il suono morbido e rotondo dei contrabbassi è semplicemente meraviglioso.

Prima di congedarsi, Edgar Moreau ha regalato al pubblico la Sarabanda dalla Suite per violoncello n. 3 di Johann Sebastian Bach.

Com’è naturale, i ranghi si infoltiscono parecchio per la celebre Quinta di Čajkovskij. Nata ben undici anni dopo la Quarta, condivide con questa la tematica del Destino e una struttura compositiva che origina direttamente dal tema che nello spazio ordinato della partitura vuole rappresentare proprio il Destino stesso; l’avanzamento di questa sinfonia rispetto alla precedente è che l’idée fixe non è solo più presente nel testo, ma diventa l’elemento costitutivo su cui si regge l’intera architettura della composizione. Il lugubre ammonimento attraversa ogni movimento, ogni pagina, l’ossessione perseguita l’autore e con lui l’ascoltatore e neppure quel valzer così lirico che prende il posto dello Scherzo ne viene risparmiato.

A questo punto appare significativa la bipartizione del primo movimento perché l’Andante in mi minore espone direttamente ed estensivamente il tema del Destino e quindi non si configura come un’introduzione del movimento stesso (che si identifica nell’Allegro con anima) ma all’intera sinfonia. L’unitarietà del movimento iniziale viene preservata dalla medesima tinta drammatica di entrambi gli incipit e dalla strumentazione quasi identica.

Quel che colpisce è l’impostazione di Blacher, che dirige la sinfonia con gesto imperioso e una presenza importante del braccio destro: totale fedeltà alla partitura e pochissime libertà sia nei colori sia nelle agogiche, in questo modo riesce a evocare il sentimento sotterraneo di quella sorta di corale/marcia che poi è fondamentalmente analogo a quello dell’esposizione tematica dell’Allegro con anima. In questo clima perturbato l’orchestra dà voce a moti in contrasto fra determinazione e abbattimento, con i rintocchi cupi e pesanti degli ottoni, le impennate vertiginose degli archi alternate a interventi di straordinaria morbidezza, un mosaico di grande complessità reso vivo dal suono caratteristico dell’Orchestra Sinfonica di Milano.

Davvero ben riuscito anche il secondo movimento, che va ben al di là del celebre solo di corno (peraltro reso in modo impeccabile). La Sinfonica di Milano e Blacher ricostruiscono un’immagine di dolcezza, quella ispirata da quel tipo di figura alla quale non si vorrebbe che accadesse mai nulla di male, ma sotto all’epidermide di serenità esiste un modo fragile in cui si agitano timori e dubbi e forse non è possibile in questo momento avere molte certezze su un futuro in cui riecheggia ancora il tema del Destino. Ma esiste più di una possibilità e la Valse, nella sua pur delicata tristezza

ajkovskiana, non afferma in alcun modo la rassegnazione, piuttosto nella sua ambiguità conferma l’esistenza di una o più scelte.

La trasfigurazione avviene nel Finale, non a caso indicato con Andante maestoso. Ritorna il tema del Destino ma in una possente tonalità maggiore aprendo le porte a uno sviluppo ricchissimo di idee e invenzione, un cambio di scenario radicale che la Sinfonica di Milano interpreta con eloquio trascinante. Esiste una certa ampollosità come forse qualche lieve squilibrio formale, tuttavia si avverte che è la musica stessa a richiedere un tale dispendio di energie, compresi gli accenti trionfalistici. Anche in questo aspetto la Quinta e la Quarta sono piuttosto simili perché le rispettive roboanti conclusioni sembrerebbero negare le tragiche premesse in apertura, ma la loro poetica è più sottile: enunciano la volontà di non arrendersi nonostante l’ineluttabilità del Destino, una presenza quasi tangibile in questa sinfonia, non così distante dagli sforzi eroici beethoveniani (sebbene le motivazioni dei due autori abbiano origini completamente diverse).

La chiarezza di Blacher rende davvero agevole seguire l’evoluzione della partitura, gli incastri sempre più complessi dei blocchi tematici e i piccoli giochi imitativi, una lettura tanto lucida quanto appassionata. L’unico momento in cui si sarebbe voluta maggiore incisività sono le battute finali, in cui tutta l’orchestra suona fff e clarinetti e trombe addirittura ffff, ma si percepisce che il finale non così tanto affermativo sia una scelta e in effetti concorda con il giudizio del compositore: «il trionfo conclusivo non si libera dalla sua vacuità».

Dal canto suo, l’Orchestra Sinfonica di Milano dimostra una solidità, una pulizia nell’intonazione e una comunione d’intenti che sottolineano – se ancora fosse necessario – il livello d’eccellenza. In particolare bisogna riconoscere in questa esecuzione un impagabile equilibrio di tutte le sezioni che porta a un risultato dove il totale è molto superiore alla mera somma delle parti.


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