L’Ape musicale

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E’ recente l’uscita da Einaudi della terza traduzione in italiano di The Catcher in the Rye. Ci ha lavorato sopra per due anni l’americanista Matteo Colombo, piemontese che vive a Berlino. E’ almeno dal ’96 che Alessandro Baricco e Sandro Veronesi parlano della necessità di una terza traduzione aggiornata ai tempi; e non è da escludere che Baricco ne abbia completata una per conto proprio . La traduzione che in Italia è stata fino ad oggi universalmente nota fu firmata dalla romana Adriana (“Diddi”) Motti - che veniva principalmente da lavori di traduzione del grandissimo umorista inglese P. G. Woodhouse - nella primavera 1961, per la Einaudi. Italo Calvino la incoraggiò in questo compito. Fu compagna di Giacomo Debenedetti dal ’44 alla morte di lui nel ’67, ed è stato ipotizzato qualche consiglio, letterario se non linguistico, nella stesura del lavoro; ma non si sa se si possa parlare di “opera a quattro mani”.

Prima di Adriana Motti, Calvino aveva interpellato l’americanista Marisa Bulgheroni, che già conosceva una prima traduzione italiana di The Catcher in the Rye ed era entusiasta del romanzo; però la Bulgheroni si bloccò davanti al problema di tradurre il titolo. Era già entrata nella storia di Salinger in Italia traducendo il racconto Down at the Dinghy; questo lavoro comparve nell’autunno 1959 sul mensile Il Caffè di Giambattista Vicari; è una geniale storia salingeriana che anticipa il ciclo della famiglia Glass ma anche La vita è bella di Benigni: una giovane mamma scopre che il proprio bambino è traumatizzato da un discorso antisemita contro il suo papà e riesce a fargli superare il trauma con una graziosa bugia.

Luciano Fonzi, informatico sofisticato, ma anche americanofilo, mi ha appunto ricordato che nel 1952 era già uscita una traduzione del romanzo che precedette quella della Motti di ben nove anni: Vita da uomo per l’editore romano Gherardo Casini; che non ebbe grande diffusione; e mi ha segnalato che il nome del traduttore, tale Jacopo Darca, altro non è che uno pseudonimo di Corrado Pavolini. Quindi Holden, già un anno dopo l’uscita negli Stati Uniti, fu nelle mani di uno dei più importanti tramiti tra l’Italietta prima fascista poi neorealista e la cultura internazionale.

Per sua sfortuna Corrado era fratello di Alessandro Pavolini, che fu uomo-simbolo del fascismo fino alla morte, conclusasi a piazzale Loreto, e questo handicap probabilmente ci impedisce tuttora di collocare Corrado insieme agli altri nostri grandi, coltissimi “sprovincializzatori” degli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta, come Pavese, Vittorini, Visconti. Uomo schivo, alieno da discorsi politici, regista teatrale e operistico (favorì il debutto alla Scala del giovane Zeffirelli, che fino al ’54 fu osteggiato come regista proprio da Luchino Visconti), Corrado Pavolini fu traduttore prolifico e attendibile e pubblicò decine di titoli, da Marlowe, Shakespeare e Racine a Sartre, Gide e, appunto, Salinger. E’ affrettato liquidare questa stesura, come ha fatto il traduttore numero 3 Matteo Colombo in una intervista online “un’altra traduzione pirata anteriore a quella di Motti”.

La segnalazione di Fonzi porta a riflettere sulla questione delle traduzioni dalla letteratura americana. Pochi raffronti sono affascinanti come questo à trois, tra la traduzione di Pavolini, un po’ più datata, ma assai felice in tante piccole soluzioni, quella della Motti, quella canonica, che tutti sappiamo a memoria, e l’ultima di Colombo. Tutte devono affrontare il problema del turpiloquio. Le parolacce, ci spiega la linguistica, si evolvono lentamente ma continuamente; una volta infranto un tabù verbale bisogna poi trovarne un altro, andando più in là. E nessuna cultura sarebbe “andata più in là” di quella americana a partire dalla metà degli anni ‘50. Come si pone Holden nei loro confronti ? Per fare un esempio interessante, nell’originale americano usa lo stesso termine “moron” per descrivere se stesso al suo vecchio professore di storia e poco dopo per offendere a sangue, durante una colluttazione furibonda, il suo compagno Stradlater. Non arriva comunque a scrivere “fuck” per intero: si autocensura, limitandosi a “f….”


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