L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

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Adriana Motti non ha mai nascosto di non avere compreso l’importanza della storia di Holden nella cultura giovanile degli ultimi cinquant’anni. “Ho tradotto quaranta libri e si ricordano solo di quello”, lamentava, raccontando che la contattavano numerosi sessantottini, affascinati da “un dogma, un catechismo che non capisco tuttora”. Per lei Holden era “il tipico americano alto- borghese e radical-chic, non vedevo che rapporto ci fosse con dei giovani marxisti”.E’ senz’altro vero che il microcosmo rappresentato – e fustigato – nel nostro romanzo è ricco, intellettuale, snob, tutto bianco, senza quasi contatti con la cultura afro-americana e nativa indiana. L’amico Fonzi, fondamentalmente appassionato di cultura indiano-americana, mi fa notare che nel museo che Holden cerca e vuole ritrovare intatto come quando ci andava da bambino gli indiani esistono solo “congelati”: sono ridotti a manichini didattici.

Nel non capire la portata iconoclasta di Holden la Motti era del resto in buona compagnia: tre anni fa Umberto Eco ha dichiarato sull’Espresso la più totale indifferenza nei confronti di questo capolavoro di Salinger; nulla gli ha detto, avendolo letto, dice, in epoche della sua vita lontane dall’adolescenza, l’unica – secondo il nostro grande semiologo - che permetterebbe di sentire Holden fratello.

Ma lo ha letto con attenzione? E in originale, dove il linguaggio è molto meno legato al passare del tempo che in italiano? E si è chiesto come vivevano i sedicenni italiani nel ’52 e nel ’61 – ma anche nel ’78 se è per quello? Ad essi l’odissea di Holden in The Catcher in the Rye spalancava una finestra su un pianeta di libertà e indipendenza inimmaginabili: assenti i genitori, inesistenti orari e disciplina, fumo a volontà, alcool di straforo, prostitute nella camera d’albergo. Del resto Nanni Moretti si è chiesto angosciato perché, ma perché mai, all’inizio degli anni ’60 ci fu chi andò ad abitare dalla vecchia Roma al quartiere Casal Palocco. Non sapeva che gli italiani erano stregati dalla sontuosa American way of life descritta nei film, dove si viveva in villini unifamiliari con giardino e piscina?

Il problema dei due linguaggi giovanili del 1952, del 1961 e del 2014 rientra nel più vasto problema dei due universi giovanili, l’americano e l’italiano, che nel 1951 si trovavano a distanze planetarie. E qui si capisce, se non altro, il titolo scelto da Pavolini, Vita da uomo: nel ‘51 le tre giornate del nostro sedicenne dovevano apparire inaudite, straordinarie, come una angosciosa discesa nel maelström dell’anarchia e di una maturità tragicamente precoce; ecco spiegato il “vivere da uomo” in un’età che in Italia era ancora di protezione e di innocenza. The Catcher in the Rye di Salinger ha dato un fondamentale contributo nell’enucleare e cristallizzare l’adolescenza; una fase della vita, una categoria sociale e un mercato consumistico che prima non esistevano e che in Italia hanno cominciato a venire fuori proprio negli anni in cui usciva la seconda traduzione del romanzo, quella “canonica” della Motti. Secondo Umberto Eco da noi fu Rita Pavone a capitanare la “presa di coscienza” dei ragazzi italiani fra i tredici e i diciannove anni, mentre in precedenza si passava direttamente dall’infanzia alla età adulta. Insomma, qui in Italia i teen-agers cominciarono faticosamente a venire riconosciuti nella prima metà degli anni Sessanta, e il libro poté essere letto anche come una dolorosa nostalgia dell’ infanzia. L’America così genialmente raccontata nel 1951 dieci anni dopo era molto cambiata.


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