L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Claudio Abbado e i Berliner: l'ultimo concerto in CD

L’ultimo sogno di Claudio Abbado

 di Stefano Ceccarelli

Felix Mendelssohn Bartholdy

Ein Sommernachtstraum op. 61

Hector Berlioz

Symphonie Fantastique

Berliner Philarmoniker

direttore Claudio Abbado

CD BPHR 160081-1 / EAN 4260306 18081-3 / 16:5 GEMA, Berlin Phil Media GmbH © 2016

Mi ricordo ancora quando – trepidante – acquistai i biglietti per alcuni concerti che il Maestro Claudio Abbado avrebbe dovuto tenere all’Auditorium Parco della Musica (Roma) presso l’Accademia di Santa Cecilia, nel tardo novembre del 2013. Fu vano: Abbado disertò, suo malgrado certo, quei concerti. La malattia lo stava divorando da tempo. Per mia somma sfortuna, non ebbi, dunque, mai modo di poterlo ascoltare dirigere dal vivo. Un male, il cancro, che non gli impedì, per quanto fosse nelle sue forze, di continuare a far musica. Anzi: l’essere costantemente faccia a faccia con la morte elevò Abbado a un livello di comprensione della sua arte (e del mondo) realmente sovrumano. Per un artista, e per un direttore d’orchestra non fa differenza, le emozioni sono il linguaggio principale per traslitterare in suono la musica di qualcun altro. Abbado mise tutto sé stesso in quello che dirigeva, anche e soprattutto (forse) quando il male iniziava già a divorarlo: solo nel corpo, però, non nello spirito. Uno spirito che con rinnovato vigore rileggeva molta musica già sperimentata e sedimentata in lui, con occhio nuovo, con occhio sublime, etereo, distaccato. La conduzione orchestrale dell’ultimo Abbado può essere epigraficamente sintetizzata in un solo aggettivo: iperuranico. Abbado era già lì, nel mondo delle idee perfette, lui che aveva imperniato la sua arte su un logos terso, logico. Ascoltando le magnifiche registrazioni dell’ultimo concerto che il Maestro tenne con l’orchestra che aveva guidato per molto tempo, si può trovare un correlativo oggettivo, anzi sonoro, dello stile iperuranico dell’ultimo Abbado. Un Abbado che ha sempre, bisogna dirlo, parte di un chiaro logos: ma il tutto è certamente meno stringente, meno logico appunto, più dilatato, più infinitamente riflessivo, proteso alla ricerca di un suono che forse non troverà mai, ma nella cui ricerca trova il migliore dei suoni possibili. Del resto, l’esecuzione che qui ascoltiamo è dovuta, anche e soprattutto, al confortevole rapporto di Abbado con un’orchestra, i Berliner Philarmoniker, che ha guidato dal 1989 al 2002: Julia Spinola – in un suo intervento nell’elegante cofanetto – ricorda il momento delicatissimo della transizione a una nuova Berlino, a una nuova Germania, dopo la caduta del Muro (9-11-1989) e al contestuale, storico passaggio di testimone da Karajan, che di quella Germania era stato testimone (quasi scomodo, con le luci e le ombre che ciò comportava), a Abbado, eletto quasi a plebiscito dall’orchestra stessa. Concordo con la Spinola quando nota che la lotta di Abbado contro il cancro portò in lui la giusta illusione quasi di poterlo sconfiggere grazie a un ideale utopico di vittoria sulla morte grazie alla musica.

Il cofanetto edito (ricco di approfondimenti, foto e di un documentario in DVD sul primo anno di lavoro abbadiano ai Berliner) immortala, in altissima definizione sonora – si sentono persino i respiri degli strumenti, quasi stessimo ascoltando un vinile, ma con la perfezione di un CD d’avanguardia, in linea con le tendenze contemporanee di massima piacevolezza sonora –, l’ultimo concerto tenuto da Abbado nel nuovo edificio della Philarmonie, riconoscibilissimo – per chi l’abbia visto almeno una volta – per i suoi pannelli che assumono coloriture auree al sole. Come ha spesso fatto, Abbado ha scelto un fil rouge che collegasse le composizioni in programma; in questo caso: il sogno. Hector Berlioz e Felix Mendelssohn Bartholdy ci misero del tempo per apprezzarsi: l’uno avanguardista sonoro puro, l’altro innovatore nell’alveo di una rinfrescata lettura del classico. Abbado li unisce in due delle loro più celebri e icastiche composizioni: le musiche di scena per lo shakespeariano A Midsummer Night’s Dream (Ein Sommernachtstraum) op. 61 di Mendelssohn e la Symphonie Fantastique. Abbado non era mai stato così delicato, analitico, espansivo nell’eseguire la sezione della fatata toccata che precede il ruzzante esplodere dell’ouverture. Questo senso di soffusa dolcezza, di levigatezza sonora che si spande su ogni nota, è endemica in tutta l’esecuzione del Sommernachtstraum. Del pari, la celeberrima marcia nuziale (n. 9) suona come un profluvio di petali di rose: delicatissima d’una gioia quasi agreste, Abbado realizza la scena del matrimonio fra Teseo, Ippolita, Demetrio, Elena, Lisandro e Ermia come se fosse dipinto in un quadro di Alma Tadema. Proprio un senso sonoro d’arcadica levigatezza è la firma più riconoscibile di Abbado in quest’estrema incisione del Sommernachtstraum: l’agogica viva ma misurata dello Scherzo, l’uso delicatissimo della pura voce sopranile di Deborah York e del coro per «You spotted snakes with double tongue», che culmina nella deliziosa ninna nanna («Philomel, with melody»), quella sorta di silvestre trio al centro dell’Intermezzo o le melodiose brine che accompagnano il sonno degli innamorati nel bosco (Notturno). Abbado sente ogni emozione, la sua bacchetta non lascia nulla al caso: rispetto all’edizione Sony del 1996, l’agogica è più rilassata, meno frizzante, più – appunto – celestiale. Col medesimo spirito, Abbado dirige il finale: «Through this house give glimmering light», in cui Mendelssohn utilizza alcune ultime battute di Oberon e Titania facendole cantare dal coro femminile, dal soprano e da un mezzo (qui è la brava Stella Doufexis), e chiude il tutto con una citazione dal suo giovanile ouverture.

Stesso piglio, stessa allure ha la resa dell’onirica Symphonie Fantastique di Berlioz; anzi, più che onirica, oppiacea, allucinata. Rispetto all’incisione con i complessi della Chicago Symphony (Deutsche Grammophon) del 1984, quest’ultima edizione risente di quel processo depurativo del suono che ho più volte sottolineato: tanti energici pigli, talune sonorità portate con maggiore virulenza, l’effetto più marcatamente allucinato, insomma, cedono il passo a un suono che coglie e interpreta soprattutto il lato onirico della scrittura di Berlioz. Del primo movimento (Rêveries – Passions), Abbado coglie molto bene, ora, il senso di «rêverie mélancolique», meno quello di «passion délirante», più presente nell’edizione dell’84 (mi servo, da qui in poi, delle parole stesse del programma approntato da Berlioz per accompagnare la rappresentazione della sinfonia). Il ballo (II), col suo elegantissimo valzer, è tra i momenti più alti del CD: Abbado vi profonde una raffinatezza impareggiabile. L’evocazione bucolica del III movimento (Scène aux Champs) incontra perfettamente il sentire dell’ultimo Abbado: una sera campestre, due pastori che zufolano in lontananza, poi il momentaneo turbamento («Ce mélange d’espoir et de crainte, ces idées de bonheur troublées par quelques noirs pressentimens»). S’allontana, Abbado, da un’idea terrosa, pur se trasfigurata in una dimensione oppiacea, a suo modo dura, allucinatoria, nel IV (Marche au supplice): s’ascoltino gli ottoni dilatati nel suono fino all’estremo, quegli ottoni che scandiscono la marcia al supplizio. Le allucinate fioriture del sabbat del V movimento sono ancora proiettate in una dimensione forse troppo ultraterrena, i passaggi bruschi e le virate poco marcate, risolte con eccessiva eleganza: un senso di sovrannaturale incombenza non si perde, certo, ma molti accenti volutamente satanici sì («l'orgie diabolique»). È così che l’Abbado ultima maniera ci saluta: scorge già una dimensione ulteriore, tutta la musica che dirige vi s’ammanta e se perde di una dose di realtà, acquista una trasfigurata universalità.

 


 

 

 
 
 

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