L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Universale e particolare

di Roberta Pedrotti

N. Jommelli

Requiem

Sandrine Piau (soprano), Carlo Vistoli (alto), Raffaele Giordani (tenore) e Salvo Vitale (basso)

Giulio Prandi, direttore

Orchestra e Coro Ghislieri (solisti della Schola Gregoriana Ghislieri diretta da Renato Cadel: Massimo Lombardi e Roberto Rilievi tenori, Renato Cadel basso)

registrazione effettuata nel novembre 2019 a Dobbiaco

CD Arcana A 477, 2020

Gli scritti di Charles Burney (1726-1814) non saranno fonti storicamente infallibili, ma le sue testimonianze di prima mano sono, ad ogni modo, preziosissime per comprendere il mondo musicale del suo tempo. E, se Nicolò Jommelli viene dall'inglese definito il maggior compositore italiano vivente, è più che lecito soffermarsi a ponderare ques'affermazione. Per chi frequenta il melodramma settecentesco, in effetti, l'opera di Jommelli non può che rappresentare una delle più significative chiavi di volta di metà secolo, fra gli equilibri metastasiani e nuove tensioni drammatiche, fra la storia (romanzata) e il mito, fra ragione illuminista e sentimenti sturmer o rousseuiani, con l'intrecciarsi di influenze partenopee e francesi .

Oppure, c'è la produzione sacra: sebbene l'impegno liturgico restasse laterale rispetto a quello teatrale (o all'oratorio), il Requiem composto nel 1756 per le esequie di Maria Augusta di Thurn und Taxis, madre del patrono di Jommelli Carlo II Eugenio del Württemberg, fu immediatamente riconosciuto come un capolavoro di lunghissime fortune, ripreso anche in maniera parziale per Massimiliano III di Baviera e Antonio Canova, per Luigi XV di Francia, Christoph Willibald Gluck e Gioachino Rossini. Inevitabile, dunque, che la partitura fosse anche oggetto di adattamenti e rimaneggiamenti, come quello firmato da Antonio Salieri. Giulio Prandi, in questa incisione, si propone di rimettere le cose in ordine facendo riferimento, in assenza di autografo, al manoscritto napoletano del 1775 conservato a Parigi e ricco di indicazioni originali e audaci che fanno propendere per un'aderenza alla volontà di Jommelli maggiore rispetto a soluzioni più agevoli e rassicuranti. L'operazione filologica, però, non è e non deve essere una pedissequo ricostruzione letterale: risalire al segno dell'autore significa anche avvicinarsi al suo spirito, al senso dell'opera e quindi porsi il problema di riproporli nel miglior modo possibile ai contemporanei. In questo caso anche integrando il materiale di Jommelli con sequenze gregoriane che completano l'intonazione del testo liturgico, come dovrebbe essere avvenuto per i funerali di Maria Augusta, in modo da rendere sia il più ampio respiro della celebrazione in cui la partitura si iscrive, sia il rapporto fra queste monodie e la creazione di Jommelli.

Risultato di tale scrupolo storico e filologico, e di tale consapevolezza, è un'esecuzione di profonda, abbagliante bellezza, da cui traspare tutta la plasticità con cui Jommelli modella la dottrina compositiva in toccante respiro patetico, sicché la solennità e il cordoglio non si stemperano, ma si arricchiscono di intime tenerezze e bagliori di speranza. Basterebbe soffermarsi sul Dies Irae, sulla sua affermazione dapprima compatta e maestosa poi subito affidata all'ingresso progressivo delle voci in un crescendo che vede svilupparsi la drammaticità del racconto con una varietà espressiva sorprendentemente vivida nell'alternarsi di frasi cantabili, momenti fugati e asserzioni collettive. Il rapporto fra assieme e singoli costituisce il moto interiore di un Requiem intimo più che tragico e nel tessere questa trama – e la sua specifica teatralità che non è necessariamente operistica, ma semplicemente rappresentazione dinamica di affetti – Giulio Prandi non trova solo la complicità dell'Orchestra e Coro Ghislieri, impeccabili per pulizia esecutiva ed esattezza espressiva, ma anche di un quartetto solistico d'altissimo livello composto da Sandrine Piau (soprano), Carlo Vistoli (alto), Raffaele Giordani (tenore) e Salvo Vitale (basso). Non si tratta solo di qualità delle voci, di musicalità e competenza stilistica: si tratta di comprendere e realizzare fino in fondo un ideale d'astrazione che nella musica del Settecento è tensione all'universale, non negazione del reale. Conta ciò che viene detto cantanto, contano le diverse inflessioni che i versi latini trovano di volta in volta fra stupore e compassione, speranza e terrore, maestà e fragilità, conta il senso più alto e condiviso del testo – inteso nella sintesi di parola e musica – al di là della particolarità individuale, che pure in esso potrà riconoscersi e sublimarsi. I quattro registri si muovono in continuità, come manifestazioni di un unico spirito umano, senza un riferimento univoco. Come l'intero Requiem si muove intorno all'impianto tonale di Mi bemolle maggiore e lo declina nelle più delicate sfumature, così avvertiamo il calibratissimo moto d'accenti e colori in una comune sensibilità e in una sorta di continuità timbrica fra i solisti e i complessi corali e orchestrali. Il buon gusto è una categoria tanto vaga e indefinibile da manifestarsi solo in esempi concreti, e qui ne abbiamo uno, che discende tutto dalla consapevolezza e dalla comprensione sposate alla preparazione e alla sensibilità.

Con una copertina particolarmente bella nei toni del verde, del giallo e del blu, completano l'opera le note di Raffaele Mellace e Giulio Prandi, fluide, utili, puntuali.


 

 

 
 
 

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