L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La regina pastorella 

  di Roberta Pedrotti

J.-J. Rousseau

Le devin du village

Mutel, Dubois, Caton

Les nouveaux caractères

direttore Sébastien d'Hérin

Théâtre de la Reine, 1 e 2 luglio 2017

CD + DVD bonus Le château de Versailles CVS004, 2018

Due pastorelli si amano, hanno qualche incomprensione e si rivolgono al saggio “mago” del villaggio che li aiuta a riappacificarsi. Intorno a una delle trame più esili che si possano immaginare ruota un universo. Le devin di village è la partitura più celebre di Jean-Jacques Rousseau, che tutti conoscono come filosofo, ma si formò prima di tutto come musicista (e il suo contributo all'Encyclopédie alla musica è in primo luogo consacrato). È l'opera delicata di un illuminista data alla corte di Luigi XV nel 1752 e solo un anno dopo al centro, miccia fra le micce nella polveriera, della Querelle des bouffons, portabandiera in lingua francese della fazione filoitaliana che trova nella Lettre sur la musique française dello stesso Rousseau il proprio manifesto teorico. È anche un'opera in miniatura – sul modello dell'Intermezzo italiano, ma con un'Arcadia pastorale e sentimentale a sostituire la Commedia dell'Arte – capace di accattivarsi straordinari consensi, di attirare l'attenzione per parodie e rifacimenti, fino alla versione musicata nel 1768 da un certo dodicenne prodigio nativo di Salisburgo, con il titolo di Bastien und Bastienne.

Ascoltare Le devin du village di Rousseau, dunque, è entrare nel cuore della storia dell'opera settecentesca, della filosofia, dell'estetica, della società. È un cuore deliberatamente semplice: la scrittura di Rousseau risponde più che altro, si direbbe, a un'idea programmatica. Tutto è, vuole e deve essere lineare, ingenuo, il canto puro, legato alla chiara articolazione del testo, non troppo elaborato nella linea melodica, spesso ispirata a temi popolari. Così l'orchestrazione accompagna docile, senza particolari invenzioni nel dipanare il carattere pastorale fra archi, oboe, flauto traverso, fagotto e arpa. Il sogno bucolico del Petit Trianon perseguito con l'idealismo del filosofo padrone anche degli strumenti – almeno quelli essenziali – del musico.

Condivisibilissima, allora, la scelta di una lettura non solo storicamente informata sul versante musicale, ma anche tutta protesa a una gustosa ricostruzione d'epoca sotto il profilo scenico. Il cofanetto offre, infatti, con la registrazione in CD, anche un DVD bonus (invero assai spartano, mancando di menù, sottotitoli e lista delle tracce). Siamo proprio al Théâtre de la Reine al Petit Trianon di Versailles, dove la stessa Maria Antonietta si divertì a interpretare la protagonista Colette il 29 settembre 1783. Danza e recitazione di sapore antico, costumi da pastorelleria aristocratica ancien régime, scene dipinte con spettacolari mutazioni a vista, botole, metamorfosi di boschetti in interni rustici e viceversa. Una deliziosa rievocazione dello stupore settecentesco, del mascheramento arcadico, del gioco di società che esalta un'idealizzata ingenuità. Poi, sugli applausi finali, la telecamera cattura uno spettatore che fotografa la scena antica con un modernissimo smartphone, e il divertissement temporale è completo.

Se lo godono anche i membri dell'ensemble Les nouveaux caractères, in abiti settecenteschi senza rinunciare a orologi e occhiali del XXI secolo, ben guidati da Sébastien d'Hérin, concertatore al cembalo, per trarre dagli strumenti d'epoca un suono evocativo e ben affinato, vivace nella sua linearità di scrittura, cui risponde, nel suo brevissimo coinvolgimento finale (siamo pur sempre in Francia e le nozze di Colin e Colette vanno celebrate con danze e cori, il carattere nazionale incontra il modello italiano), il buon gruppo vocale di cinque elementi. Tutto è commisurato a dovere alle dimensioni della sala, oltre che alle proporzioni drammaturgiche e musicali del testo. Squisitamente coinvolti, inseriti nel gioco di mascheramenti (il XXI secolo che rievoca l'aristocrazia del XVIII che rievoca idilli pastorali di fantasia) senza maniera, ma con garbo, spirito e consapevolezza sono i tre solisti: gli innamorati Caroline Mutel - cui spettano sia la firma registica sia l'intonazione di “J'ai perdu tout mon bonheur”, forse l'aria più celebre della partitura - e Cyrille Dubois, il deus ex machina Frédéric Caton, specialisti nel miglior senso della parola. L'evocazione di un momento storico tanto definito nel suo intreccio di tensioni poetiche e di riferimenti sociali riesce così ad apparire fedele, plausibile, come se si animasse un dipinto di Fragonard e ci svelasse le sue voci, i suoi movimenti, la sua tridimensionalità. Un mondo lontanissimo da noi, ma capace di mostrarsi, nella fresca convinzione di tutti gli interpreti e artefici, senza un granello di polvere. 


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