L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Alla fine della notte

di Michele Olivieri

La stagione scaligera ha riproposto la recente coreografia di Mauro Bigonzetti sulla composizione di Fabio Vacchi. Un’opera complessa che genera perplessità nella commistione tra danza, musica, canto, recitazione e arte visiva.

MILANO, 7 marzo 2024 – L’allestimento inizialmente doveva nascere come opera lirica, ma poi è stato organizzato secondo un nuovo schema in forma di balletto e per definizione del compositore di “teatro-danza”. Questa premessa è doverosa per capire la complessità rappresentativa nonché la fruizione. La drammaturgia è di forte attualità in quanto rivolge il proprio sguardo agli accadimenti che ci circondano: integralismo religioso, terrorismo, fanatismo, politica, guerra, devastazione, violenza e sfruttamento delle donne. Madina (Antonella Albano) è una giovane cecena, vittima di uno stupro da parte di soldati russi e il cui zio Kamzan (Roberto Bolle), per riscattarne l’onore, la obbliga crudelmente a compiere un attentato terroristico suicida. Ma in Madina predomina il desiderio di vita e non quello di morte. Tale antefatto viene rievocato in scena dai testi recitati da Fabrizio Falco e da quelli cantati dal mezzosoprano Anna-Doris Capitelli e dal tenore Paolo Antognetti, mentre a sostenere la struttura estetica è la coreografia di Mauro Bigonzetti. La danza si alterna velocemente tra scene di gruppo dove la sincronizzazione risulta evidente, tra assoli, passi a due o a tre in un ribollire di corpi e di movimenti scattanti. Bigonzetti inasprisce lo spasimo con l’acuirsi dei contrasti che preludono alla catastrofe rincorrendo la musica per stimolare il coinvolgimento emotivo della platea. Alla protagonista Antonella Albano, prima ballerina della Scala, viene richiesta una forte componente interpretativa e una performance che si dipana tra contorsionismo, equilibrismo, funambolismo e arte circense nell'accezione più nobile. Lei risponde con convinzione a un ruolo che ha fatto suo, immergendosi totalmente in una figura femminile che le ha regalato unanimi consensi. Roberto Bolle (nel finale scultoreo e granitico) affronta un ruolo ben lontano da quelli che lo hanno elevato alla gloria – basti pensare a Siegfrid o a Onegin e Armand – danzando con la sicurezza tecnica e l’impegno proverbiali che lo contraddistinguono, anche se non esattamente nelle sue corde. Ciò non toglie il successo personale e i copiosi applausi ricevuti. Ineccepibile il corpo di ballo diretto da Manuel Legris che dimostra (a prescindere) la propria abilità e versatilità. Si fanno notare il Louis di Gioacchino Starace, la Olga di Alessandra Vassallo, il Sultan di Gabriele Corrado, lo scattante Marco Messina e il talentuoso Francesco Mascia. Lo straziante finale vede Madina piangere sul corpo suppliziato di Kamzan e allo spettatore non rimane che constatare la veridicità di scene troppo spesso viste nelle cronache dei telegiornali. Di buon impatto la scenografia minimalista di Carlo Celli con imponenti colonne d’acciaio, un soppalco, pochi ma efficaci elementi e un maxi schermo che ben si inserisce nel contesto (mai come in questo caso la modernità della tecnologia va a braccetto con la contemporaneità). Il fondale proietta immagini di desolazione restituendo una pertinente angoscia e cupezza (a cura dei video designer Carlo Cerri, Alessandro Grisendi, Marco Noviello). Si tratta di bombardamenti, incendi, guerre, devastazioni, e afflizioni. Nella precedente recensione scritta in occasione della prima mondiale [Milano, Madina, 12/10/2021] ci si domandava se lo spettacolo poteva produrre un qualcosa di utile sulla coscienza degli spettatori? Se poteva o meno generare sensi di colpa o condizionare futuri comportamenti? Il quesito permane. Forse alla maggioranza degli spettatori è sufficiente partecipare al rito del teatro, all’assistere alle esibizioni dei propri beniamini, al contorno luccicante del Piermarini. L’augurio è che un teatro così reale che interroga tragicamente il presente e l’avvenire non sorprenda passivamente.


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