L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Fra schermo e spada

di Roberta Pedrotti

G. Verdi

Simon Boccanegra

Salsi, Rebeka, Pape, Castronovo

direttore Valery Gergiev

regia di Andreas Kriegenburg

Wiener Philharmoniker

Konzervereinigung Wiener Staatsopernchor diretto da Ernst Raffelsberger

Salisburger Festspiele 2019

2 DVD Unitel 802608, 2020

Il cast è buono, ottimo, anzi, quale ci si aspetterebbe dal Festival di Salisburgo. C'è Luca Salsi, uno dei baritoni verdiani oggi di riferimento alle prese con un personaggio chiave del repertorio come Simon Boccanegra; c'è Marina Rebeka, che coniuga la classe della sua formazione belcantista con uno smalto che non teme le più accese temperature drammatiche della parte di Amelia/Maria; c'è René Pape, sempre signorile nel far trasparire in Fiesco serrato riserbo, lacerazione e fuoco implacabile; c'è Charles Castronovo, che esce a testa alta dall'impegno ardente dala scrittura elegiaca e drammatica di Gabriele Adorno. E se meno noto è il Paolo di André Heyboer, sa inserirsi comunque con credibilità in un parterre di così alto profilo, in cui va citato anche il Pietro di lusso di Antonio Di Matteo.

La locandina promette e non si può dire che non mantenga: tutti cantano bene, molto bene; la pronuncia è sempre chiara e consapevole; non ci sono cadute di stile; ciascuno si produce all'altezza della sua fama, il che non è poco. Ma non basta. Non basta perché anche la concertazione di Valery Gergiev pare limitarsi ai crediti di una compagni d'alto livello, di un'orchestra stellare (i Wiener Philharmoniker) e di un coro eccellente (il Konzervereinigung Wiener Staatsopernchor). Inutile dire, quindi, che la partitura sia eseguita benissimo, tuttavia il lavoro di sottrazione, la tendenza introspettiva e malinconica che si percepisce nella concertazione del maestro russo finisce per prosciugarne la lettura e perdere di mordente. Soprattutto, emerge il limite di una insufficiente compenetrazione del testo e della sua naturale articolazione, sicché viene a mancare quel cesello che darebbe vita al minimalismo perseguito da Gergiev, condannato a spegnersi quando, per esempio, nella Scena del gran consiglio e segnatamente in “Plebe, patrizi, popolo” non riscontriamo, a dispetto delle belle intenzioni di Salsi, la sensibilità poetica all'espandersi della perorazione, all'estasi dell'utopia, alla fermezza dolorosa dell'invettiva, a tutte le sfumature drammatiche che dovrebbero naturalmente riverberarsi nella dinamica, nell'agogica, nei colori. La volontà di una lettura sobria e pudica, finisce, invece, per anestetizzare il fraseggio a dispetto dell'indubbia qualità tecnica di ogni dettaglio.

Parimenti, lasciano presto indifferenti la regia di Andreas Kriegenburg e la drammaturgia di Julia Weinreich. Già l'incipit si mostra bifronte: in un'opera tutta sottintesi, intrighi, trame politiche giocate su più fronti, in cui pochi (spesso sotto mentite spoglie) si contendono il potere manovrando il volubile “popolar favore” l'idea di mostrare la frenetica campagna mediatica che muove “le plebi” può essere vincente. Subito, però, si avverte uno iato evidente per lo spettatore madrelingua: il teatro si basa su convenzioni, non su un realismo rigoroso, e il linguaggio librettistico ottocentesco può essere perfettamente coerente, sul palco, con un'ambientazione contemporanea. Però, bisogna credere in questa coerenza, che comincia a scricchiolare quando i personaggi parlano come Piave e Boito e scrivono i loro messaggi sui social come influencer o troll del XXI secolo. Scricchiola pure quando si vuole a tutti i costi dare a Gabriele Adorno uno sciabolone da offrire al Doge, quando nel contesto “ecco la spada” avrebbe potuto funzionar meglio con un moderno coltello a serramanico o con qualunque altra arma (se coerente con il contesto e chiaro nel codice uno slittamento di significato è più logico della letteralità a tutti i costi). La lettura politica, poi, non si sviluppa, emargina il coté privato tanto da far passare senza un brivido il duetto dell'agnizione e non ci dà granché in cambio: una recitazione generica, un'ambientazione insignificante, che sciupa un impianto asettico e geometrico con l'inutile angolo piano bar – mini garden senza risolvere un altro embrione potenzialmente interessante com'è quello nella negazione visiva del mare, alla fine appena uno scorcio all'orizzonte dalla finestra.

Come al solito, l'abito non fa il monaco: non basta un velluto ricamato o una trifora, non basta un doppiopetto o un'architettura contemporanea per fare teatro, ma occorrono idee e la forza di svilupparle. Non basta avere di fronte un cast, un'orchestra, un coro fra i primi al mondo e voler perseguire una lettura intima e antiretorica, non basta essere un grande direttore per concertare un grande Simon Boccanegra.

Non basta, e consegna questa edizione alla storia delle occasioni perdute, ma, si spera, delle esperienze non disutili.


 

 

 
 
 

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