L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Meditazione sul dolore

di Roberta Pedrotti

Myung Whun Chung dirige la Trauersinfonie di Haydn e lo Stabat Mater di Rossini al Teatro alla Scala in un concerto di intensa carica spirituale, in cui le distanze fisiche e l'unione nella musica sono parti integranti dell'interpretazione.

Streaming da Milano, 6 marzo 2021 - Quando tutto è dato per scontato, sembrano scontate anche tante parole, ormai formule consunte. Poi, quando manca il pubblico - o è ridotto ai minimi termini - e quando si deve fare musica a distanza, il viso coperto da una mascherina, i fiati recintati nel plexiglass, i cori parcellizzati in singoli nei palchi, dire che l'arte unisce, che supera le barriere e le abbatte non è più tanto ovvio, non è più banale. Anzi, in tempi orribili, chi continua a cantare, suonare, dirigere dietro a una mascherina, separato dal compagno di leggio offre un'immagine bellissima. Non bella di per sé (esiste il bello assoluto avulso dal contesto?) ma bella perché piena di significato, di sensibilità, di forza e determinazione. Il coro della Scala che torna cantando dai palchi "Stabat Mater dolorosa iuxta crucem lacrimosa", i volti nascosti che ricordano la tragedia, i riflessi cremisi degli scialli di soprani e contralti a richiamare velluti e tappezzerie del teatro: il capolavoro di Rossini risuona eterno, vivo, terribilmente attuale. Ancor più, poi, nei passi a cappella, in cui la compagine scaligera fa dell'esattezza espressione attonita di un'atmosfera sospesa, interrotta che non può non deflagrare nella maestà dell'"Amen", che Myung Whun Chung controlla affinché non travolga sé stessa, ma liberi la grandezza razionale della costruzione. Dalla lucida intelligenza del contrappunto viene l'effetto, senza studio il pathos ha le armi spuntate. Invece, giustamente, qui tutto si gioca nell'introspezione e nella spiritualità. Perfino l'ardente "Inflammatus" è intonato da Rosa Feola con un che di candido e fanciullesco, con una dolcezza trepidante di fronte all'irruenza del fuoco, ma senza soccombere. Così René Barbera onora la tessitura ardita mantenendo il rigore di un'espressione sorvegliata; Veronica Simeoni non inventa turgori contraltili, ma fraseggia con sensibilità e finezza; Alex Esposito non si atteggia a profeta altisonante, introiettando piuttosto una profonda umana compassione, un senso di comprensione e condivisione vibrante anche nel declamato più essenziale. Tutto secondo il gesto concentrato e soffice di Chung, che con il capolavoro sacro rossiniano ha lunga e intensa consuetudine.

Peccato non sentirlo dal vivo, forse, sebbene la fruizione a distanza sembri enfatizzare ancor più la portata spirituale, il senso oggi di questo Rossini diffuso nella Scala e portato nelle nostre case. L'accostamento con la Sinfonia n. 44, Trauersinfonie, di Haydn è ancora più felice in questo senso, vuoi per l'assicurazione con il lutto, vuoi per la risaputa vocazione haydniana coltivata dal "tedeschino" Rossini fin dai primi studi, vuoi per la concertazione morbida e chiaroscurata di Chung e l'ottima risposta dell'orchestra scaligera, per un riserbo declinato tuttavia in un fine cesello dinamico fino a un ultimo movimento paragonabile al parallelo "Amen" rossiniano per slancio e controllo, solennità che non si lascia travolgere e concentra il pathos del momento. A questo pathos segue il silenzio, un frullare d'archetti e battimani solidali fra i musicisti. Essere lontani, però, ci fa sentire più vicini, e forse anche poi non sarà più un'usurata frase fatta.


 

 

 
 
 

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