L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Epifania del Romanticismo

di Alberto Ponti

L'auditorium Toscanini accoglie due interpreti di alto livello come Renaud Capuçon e Robert Trevino per un memorabile programma comprendente Wagner, Bruch e Čajkovskij

TORINO 19 novembre 2021 - Alla fine gli applausi sono tutti per lui: Robert Trevino, direttore ospite principale dell'Orchestra Sinfonica Nazionale, alla sua prima apparizione sul podio nella stagione, elettrizza il pubblico torinese con una spettacolare Quarta di Čajkovksij in una serata che rimarrà a lungo nella memoria dei presenti. Ma andiamo con ordine. Concerto d'altri tempi, che stuzzica il palato con un programma sontuoso per impegno e tenuta, e non potrebbe non esserlo quando l'introduzione è affidata nientemeno che all'ouverture del Tannhäuser. L'approccio di Trevino, in un brano di tale potenza, pare addirittura misurato. La musica di Richard Wagner nel 1845 già possedeva una carica visionaria inedita eppure quanto Weber si avverte tra i vapori sensuali del Venusberg! Texano di origine messicana, 37 anni, Trevino vanta un palmares di tutto rispetto con esperienze alla testa di moltissime orchestre di primo piano. Nel poema wagneriano evita con intelligenza di acuire i contrasti tra le parti estreme e quella centrale, tanto che le une appaiono saldate all'altra in un unico arco. Il brulichio cromatico degli archi alla ripresa della Marcia dei Pellegrini dà l'impressione di nascere dall'inquieto agitarsi del poeta al cospetto di Venere. Trevino sa dettare i tempi e, quando si parla di un direttore di professione non è un pleonasmo o una boutade. Accade talvolta di imbattersi in colleghi che non hanno chiaro il passo da imprimere a un'esecuzione, con il paradossale effetto di assistere a dei veri e propri 'vuoti' tra gli episodi di un movimento.

Il maestro statunitense dimostra di conoscere a fondo le partiture affrontate e di imprimere con immediatezza il suo pensiero musicale all'orchestra anche nel primo concerto in sol minore op. 26 di Max Bruch (1838-1920), con solista Renaud Capuçon, violinista tra i più noti a livello internazionale. Il lavoro deve la sua fortuna alla freschezza melodica dei suoi temi conduttori ma lascia trapelare, soprattutto nell'Allegro moderato iniziale dall'andamento rapsodico, squarci di robusto sinfonismo romantico. Trevino, che di Bruch ha inciso in Germania le tre sinfonie, di cui almeno la prima meriterebbe maggior diffusione, asseconda l'eloquio sincero di un artista nel cui lavoro prevale lo slancio di un'eleganza innata e ispirata. Il suono di Capuçon e del Guarneri 'Panette' appartenuto a Isaac Stern è d'altro canto formidabile: pochi al mondo sanno trarre un vibrato di tale pienezza, capace all'occorrenza di ampliarsi privo di ruvidezza o assottigliarsi fino a sfiorare il silenzio senza sfilacciarsi o perdere di intensità. Esemplare al riguardo è la 'Melodie' di Gluck tratta da Orfeo ed Euridice, atteso bis tutto giocato su sfumature di piano e pianissimo. Lo stesso fascino incantato Capuçon mantiene nel celebre, commovente Adagio del concerto prima di liberare al meglio nel finale il repertorio da virtuoso di eccelsa statura nei differenti colpi d'arco. E' una girandola senza un attimo di tregua, dove la tecnica rimane tuttavia al servizio di un'urgenza espressiva resa con la massima semplicità e finezza di sentimento.

Viene infine la memorabile, rivelatrice Quarta. Trevino, vincitore nel 2010 del James Conlon Prize (tra l'altro James Conlon salirà sul podio dell'OSN Rai fra pochi giorni) si pone nella scia della illustre tradizione americana di Bernstein e Tilson Thomas. I punti forti della sua direzione sono intuitivo senso della struttura e perfetta scansione ritmica, accompagnate a una minuziosa indagine timbrica che valorizza e illumina anche passaggi normalmente in ombra. Il grandioso primo movimento, il più vasto dell'intera produzione cajkovskiana, dipinge così con vivezza di tinte il combattimento interiore dell'autore tra abbandono al fatalismo e volontà di affermazione vitale, elevando a dramma di valore universale le suggestioni autobiografiche che, con bacchette meno decise, finiscono per prevalere in un gioco sterile di bozzettismo superficiale. Gli ottoni squillanti della fanfara iniziale, l'ovattato valzer intonato sottovoce da violini e violoncelli, i misteriosi arabeschi dei legni del secondo gruppo tematico cedono il passo, nel successivo Andantino in modo di canzone, alla malinconica melopea dell'oboe, penetrante come non mai, emergente dalle profondità insondabili dell'animo di Čajkovksij. E che dire allora dello scherzo? Dimenticate i pizzicati gommosi e uniformi che in esecuzioni di minor pregio spesso inficiano la brillantezza della pagina. Qui il panorama è luminoso, gli attacchi hanno qualcosa di miracoloso per precisione e pulizia, la varietà dinamica è sovrana, producendo un risultato di puro edonismo sonoro, al pari del travolgente Allegro con fuoco conclusivo mantenuto da capo a fondo sotto il segno di un'impetuosa cavalcata sotto la quale, nonostante lo sfavillio delle rincorse di quartine tra archi e legni, si intravede ancora una volta lo struggimento della natura intima del compositore.

I musicisti mostrano i segni della dura fatica, ricambiata dall'entusiasmo incontenibile di una platea che vorrebbe complimentarsi con ciascuno di loro, come dimostrano le generose ovazioni tributate senza distinzioni ai protagonisti della serata.


 

 

 
 
 

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