L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Omaggio a Caruso

di Stefano Ceccarelli

L’ultimo concerto dell’anno all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia è un riuscito omaggio al tenore Enrico Caruso. L’orchestra viene diretta da Riccardo Frizza e le varie arie, cavalli di battaglia dello storico tenore napoletano, sono interpretate da Javier Camarena. Il concerto, che annovera un’antologia di pezzi da Donizetti, Gounod, Bizet, Verdi, Puccini, Ponchielli, von Flotow, Giordano, Leoncavallo e Cilea, è uno straordinario successo.

ROMA, 22 dicembre 2021 – Il celeberrimo tenore Enrico Caruso moriva cento anni fa, nel 1921; moriva in patria dopo aver fatto ritorno dall'America, luogo dove era riuscito a fare fortuna. Uomo del popolo col fiuto degli affari, Caruso coniugava l’arte, nel senso più nobile del termine, allo spirito imprenditoriale, che lo condusse, appunto, in America, nella sfavillante New York di inizio secolo scorso. A differenza di molti suoi colleghi, Caruso ebbe il merito di capire ben presto che le registrazioni erano la chiave per il successo e che gli avrebbero portato fama in tutto il mondo. Così, in effetti, accadde, tanto che ancor oggi Caruso è considerato una delle voci più celebri della storia.

Il direttore Riccardo Frizza e il tenore Javier Camarena intendono omaggiare Enrico Caruso ripercorrendone, mediante un’antologia di arie e pezzi celebri, la carriera e i ruoli (o le opere) che resero il tenore napoletano famosissimo fra i due mondi. La serata scorre fra scrosci di applausi quasi ad ogni pezzo (ma, anche, all’interno dei vari pezzi), mercé non solo l’ottima esecuzione degli interpreti, ma anche la fama dei pezzi suonati. Si tratta di opere e parti di esse (preludi, intermezzi danze etc.) che Caruso ebbe in repertorio e che danno giustamente ragione dell’atmosfera sonora, della temperie musicale a cavallo fra XIX e XX secolo. Poterle ascoltare, poi, dando sempre un’occhiata alle note di sala, acute e argute, di Alberto Mattioli è certamente un valore aggiunto.

Il primo tempo si apre con Frizza che dirige l’ouverture da La Favorite di Gaetano Donizetti. Il direttore mostra sùbito di essere uno specialista del repertorio operistico e, in particolare, di Donizetti. L’agogica è curata nei minimi particolari, notevolmente allargata nel suo tradizionale ductus soprattutto nell’inizio cupo e lamentoso, che Frizza pare distillare fin nelle minime gocce. La bacchetta si fa più energica nella seconda parte del pezzo, dove comunque Frizza gioca a carte scoperte col suo pubblico: la sua idea di direzione è limpida, ben scandita. L’orchestra si mostra fin da sùbito in forma straordinaria, restituendo un suono pieno, terso nelle varie compagini, perfettamente godibile. La sinfonia della Favorita è eccellente preludio all’ingresso di Javier Camarena, che si profonde in «Spirto gentil», dalla medesima opera, la splendida romanza di Fernando, che nel tetro di un convento, in procinto di prendere i voti, ricorda l’amata Leonora. La voce di Camarena è chiara, squillante, solida particolarmente nel registro medio/acuto, meno, certamente, in quello basso della tessitura; Camarena è uno di quei tenori belcantistici puri che sfogano precipuamente in acuto, pur mantenendo un’apprezzabile varietà di colori nel registro centrale. Merito di Camarena, inoltre, è quello di possedere una solida tecnica, che non manca di mostrare nel corso della serata, come avrò modo di notare. In questa romanza donizettiana, Camarena gioca con le mezze voci, con i legati e le melodie ‘belliniane’, mostrando già un’eccellente capacità di verticalizzare. Il secondo pezzo è l’aria di Faust «Salut, demeure chaste et pure», da un’opera, il Faust di Charles Gounod, estremamente famosa all’epoca di Caruso; qui Camarena si abbandona a un lirismo fatto di colori e variazioni volumetriche della voce, mostrando la sua abilità di fraseggiatore. La romanza di Faust, infatti, fa parte di quel repertorio di lirismo puro che scalda sempre il cuore degli ascoltatori. Per far riposare Camarena, come di consueto, Frizza inserisce, fra una performance del tenore e l’altra, pezzi legati all’opera da cui è tratta l’aria cantata dall’interprete o del medesimo compositore o, comunque, in repertorio di Caruso. Qui sta molto bene la brillante Valse dalla Faust di Gounod, che mostra un lato squisitamente coreutico del polso di Frizza. Si prosegue con il recitativo e l’aria di Nadir «Je crois entendre encore» da Les pêcheus de perles di Georges Bizet. Frizza imposta un’agogica larga, dove il tenore può muoversi con mellifluo uso del legato; peccato una lieve incrinatura dell’intonazione nel primo dei due passaggi al sovracuto, nella parte centrale della romanza, che riesce in ogni caso incantevole. A dare un po’ di tregua al tenore interviene Frizza, che esegue la Suite n. 1 dalla Carmen di Bizet, applaudita quasi a ogni pezzo, a testimoniare lo stato eccellente dell’orchestra ceciliana e il gusto finemente operistico del direttore. Il primo tempo è chiuso dalla canzone del Duca di Mantova, «La donna è mobile», dal Rigoletto di Giuseppe Verdi; altro cavallo di battaglia di Caruso, nell’eseguire il quale Camarena rafforza fin quasi all’estremo la parte centrale della tessitura, per dare peso al melodioso fraseggiare del Duca e per aggiungere quel tocco di triviale spavalderia che è consustanziale alla natura del brano. Camarena chiude la canzone e il primo tempo con un sovracuto pieno, limpido, ampio, che riempie la sala e le orecchie degli spettatori – che sia interpolato, poco importa al pubblico in sala, che esplode nel giubilo più sfrenato.

A differenza di quanto annunciato sul programma di sala, Frizza e Camarena scelgono di aprire il secondo tempo con quella che sarebbe dovuta essere la chiusa del primo: il preludio da La fanciulla del West (che Frizza dirige con incisività, sottolineando la melodia franta, a blocchi ‘cromatici’, tipicamente pucciniana) e l’aria di Rodolfo «Che gelida manina» da La bohème. La scelta di aprire il secondo tempo con Giacomo Puccini è presto detta: il lucchese è infatti nato proprio il 22 dicembre (del 1858) e ne ricorre, quindi, il compleanno. Camarena è un Rodolfo perfetto, mellifluo negli accenti amorosi, fraseggiatore notevole e a suo agio con le legature, squillante nel verticalizzare. Si prosegue con la celeberrima ‘danza delle ore’ da La Gioconda di Amilcare Ponchielli; Frizza culla dolcemente le melodie coreutiche, cura il crescendo orchestrale, fino all’esplosione sfrenata del finale, strappando l’ennesimo, lungo applauso al pubblico. Viene, poi, ancora il turno di Verdi, questa volta quello de La Traviata, con l’aria «De’ miei bollenti spiriti». Camarena fa il suo dovere, giocando soprattutto con i volumi e nelle possibilità di sfogare nel registro acuto. L’ultima parte del secondo tempo, con l’esclusione di von Flotow, vede tutti autori della Giovane scuola (espressione che Mattioli, nel programma di sala, a ragione sottolinea essere migliore di veristi). Fra i due intermezzi, il primo dalla Fedora di Umberto Giordano, il secondo dai Pagliacci di Ruggero Leoncavallo, ambedue letti con trasporto lirico da Frizza, Camarena incanta il pubblico col suo canto a fior di labbra e gli acuti cristallini, elementi che sono la parte migliore della sua arte canora: prima nell’aria «M’apparì tutt’amor» dalla Martha di Friedrich von Flotow, poi in «È la solita storia del pastore» da L’Arlesiana di Francesco Cilea. In particolare, in quest’ultimo pezzo l’interprete deliba tutti gli accenti della pura corda tenorile, muovendosi fra una sensuale tavolozza di chiaroscuri. L’ovazione finale chiede a gran voce di eseguire qualche bis. Fra il pubblico un coraggioso grida: «Rossini!»; e viene accontentato: sotto un accompagnamento rutilante dell’orchestra Camarena intona La danza di Gioacchino Rossini. Non pago, il pubblico insiste e ottiene il languido intermezzo dall’Adriana Lecouvreur di Francesco Cilea. Ma il concerto termina solamente, fra scroscianti applausi, con «’O sole mio», quintessenza della musica napoletana.


 

 

 
 
 

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