L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Sempre libera (e dannata)

di Stefano Ceccarelli

Torna a Caracalla La traviata di Giuseppe Verdi nell’allestimento a firma di Lorenzo Mariani, che il pubblico romano aveva già visto nelle stagioni 2018 e 2019. Alla direzione dell’orchestra c’è Paolo Arrivabeni, che legge la partitura con vivo senso del teatro. Gli interpreti principali sono Francesca Dotto (Violetta Valéry), Giovanni Sala (Alfredo Germont) e Christopher Maltman (Giorgio Germont).

ROMA, 25 luglio 2023 – Titolo amato quant’altri mai dal pubblico, Traviata torna a calcare il palcoscenico del festival estivo di Caracalla con la ripresa della regìa di Lorenzo Mariani. Una regìa, quella di Mariani, che invecchia bene – se così si può dire. Al netto di qualche scelta o passaggio che possano risultare poco felici, o di altri elementi o idee che non si allineino con i gusti del pubblico più ‘tradizionalista’, La traviata di Mariani ha il pregio di risultare coerente, coesa, ben riconoscibile e di non alterare (per taluni casi sarebbe bene dire adulterare) il senso profondo dell’opera verdiana. Riporto in sostanza, dunque, quanto da me scritto nella recensione allo spettacolo della stagione 2018 (leggi la recensione), giacché mi trovo ancora d’accordo con quelle considerazioni.

La firma registica di Lorenzo Mariani si percepisce all’istante, soprattutto per chi abbia visto il suo Barbiere rossiniano, sempre pensato per il festival di Caracalla (2016). Questa Traviata è ambientata in un’atmosfera anni Cinquanta/Sessanta, quelli de La dolce vita felliniana, di cui Mariani vuole riprendere – a suo dire – la generale sensazione di quasi totale assenza di speranza. Il salotto della magione di Violetta diviene, quindi, una Via Veneto colma di star del cinema e avventurieri dei rotocalchi; la casa di campagna del II atto, invece, si trasforma nella classica villa a Capri, cullata dalle onde del mare (qui proiettate sullo sfondo bianco che fa da ingresso di una balconata sul mare); la casa di Flora è pensata come un casino di divertimenti, con uno strizzar l’occhio a Moulin Rouge; infine, l’ultimo atto diviene un non-luogo che rappresenta tutto ciò che fisicamente era Violetta, ma in uno stato degradato: il cartellone cinematografico che la ritraeva come star, novella Marilyn Monroe (e con la medesima carriera), diviene la sudicia coperta che raccoglie i suoi conati di sangue, mentre il palco attorno a lei è diroccato. Quest’impianto generale (l’onnipresente palco, che cangia a seconda della scenografia) realizzato dallo scenografo Alessandro Camera è tutto sommato piacevole: e la regia rivela qualche coup gustoso. Nel I atto, il brindisi diviene una sorta di esibizione canora di Violetta e Alfredo, in un teatro (o in un hotel) di via Veneto, fra scrosci di applausi. La stretta dell’Introduzione (sempre del I atto) mostra un divertente balletto in stile rock and roll, fra un via vai di persone in vespa. Vero stupore coglie nella realizzazione della festa di Flora (atto II): un tripudio di luci e tavoli con al centro un enorme cuore sul palco, dove la padrona di casa si dondola; poi ecco l’entrata di discinte ballerine nel ruolo delle zingarelle; e di aitanti ballerini in quelli dei mattadori e piccadori spagnoli, con giacchetto di pelle e maglietta dei Chicago Bulls. La danza fra i due gruppi, peraltro, lascia veramente poco all’immaginazione. In questo frangente, la realizzazione dello svergognamento pubblico di Violetta (finale II) è resa in maniera particolare: Alfredo e Douphol vengono quasi alle mani e il primo addirittura si bacia con Violetta, in un momento sospeso fra risentimento e amore (una resa insolita, estremamente realistica e moderna). Il III atto vede, come ho già detto, l’universo di Violetta, ma diroccato; la sua fama, conquistata concedendo favori di ogni genere, diviene carne da macello per degli avvoltoi fotografi: ne avevamo avuto un’anticipazione nel preludio I, quando i fotografi assediavano la diva costretta, nel suo ruolo, a soddisfarli. Ora Violetta è assediata, appunto, da paparazzi che speculano sull’immagine di lei in rovina, in una sorta di Grande Fratello ante litteram. Una scelta registica singolare: quasi mi sarei immaginato, alla fine, una sorta di conclusione ‘metateatrale’, dove la protagonista si inchinava alla fine delle riprese di un film terminante con la sua morte (in questo caso, proprio La traviata). Invece il non luogo non abbandona Violetta, che muore da star consunta dalla tubercolosi, che è dal regista metaforizzata nelle atroci aspettative che la società massificata riponeva in queste dee dell’epoca moderna. Meriti di Mariani sono l’attenzione ai movimenti, a una regia d’azione, e la cura della recitazione dei cantanti: il risultato è certo buono.

La direzione è affidata a Paolo Arrivabeni, che dirige coerentemente a quanto dichiara nelle note di sala. Il problema dell’acustica a Caracalla (come in qualunque concerto all’aperto) è una spina dolente e, in fin dei conti, irrisolvibile. Si deve rinunciare, quindi, a cogliere tutte le screziate sfumature di una partitura pur ricca di momenti sublimi. Al netto di un problema oggettivo, quindi, bisogna ammettere che l’orchestra fa bene il suo compito e Arrivabeni si distingue per una lettura complessivamente sensibile, attenta, soprattutto in alcuni momenti nodali, drammatici, dove rallenta, sospende l’agogica, allungando quasi il respiro dell’orchestra: l’effetto è magnifico. Arrivabeni, poi, sa dirigere un’opera: attento alle voci, ha il pieno controllo del palcoscenico e riproduce la partitura de La traviata senza le varie, tradizionali interpolazioni (come i sovracuti, in particolare il mi bemolle alla fine della cabaletta «Sempre libera», croce e delizia di molte Violette); tuttavia, permette i tagli delle ripetizioni della maggior parte dei cantabili e di qualche cabaletta, adducendo, comunque, sensate ragioni registiche e organizzative.

Il ruolo del titolo è interpretato da Francesca Dotto, dotata di una voce ricca di armonici ancorché, in alcuni momenti, sottile. Complessivamente, la performance della Dotto è certamente convincente, soprattutto sul lato dell’interpretazione, del fraseggio e dei colori del personaggio, che mi sembrano colti in maniera duttile e mai banale. Va detto, però, che la sua performance decolla dal II atto: il lato che – almeno questa sera – l’interprete ha sentito maggiormente di Violetta è quello più austero, malinconico e poi tragico del II e III atto. Non che nel I abbia cantato male; ma manca un brio nella voce, una freschezza che avrebbe giovato al personaggio. In tal senso, il cantabile della sua aria, «Ah!, fors’è lui che l’anima» riesce magnificamente – la dolcezza con cui attacca «A quell’amor ch’è palpito» è tenerissima, complice Arrivabeni, che rallenta e contiene il volume orchestrale, aumentando l’emozione onirica e trasognata del momento (il regista qui proietta un cielo stellato). Meno bene, però, riescono le variazioni e fioriture che precedono e condiscono la cabaletta, «Sempre libera», un po’ dure e poco fluide. Dal II atto la resa della Dotto è decisamente migliore, come dimostra lo straziante duetto con Germont padre («Pura siccome un angelo»), dove la cantante trova momenti di abbandono lirico intrisi di dolore, colori dolenti e sofferti, sostenuti da un’emissione centrata. L’ultimo atto, il III, è il suggello della performance della Dotto: dalla straziante resa dell’aria «Addio, del passato bei sogni ridenti», al duetto con Alfredo («Parigi, o cara noi lasceremo») e alla scena della morte («Prendi: quest’è l’immagine»), la Dotto dà tutta sé stessa, donando momenti notevoli. A sostenere il ruolo di Alfredo è Giovanni Sala. Cantante dotato di una voce uniforme, argentina, che si muove agilmente nei passaggi di registro, ciò che manca a Sala è, forse, un po’ di mordente; intendo dire che, spartito alla mano, Sala canta un Alfredo sicuramente rispettoso della scrittura verdiana, eppur poco sanguigno – un esempio è il finale II, la celebre scena dello svergognamento pubblico di Violetta. È vero che il ruolo di Alfredo è stato sovente accusato di essere scialbo, incolore; al netto di considerazioni che lasciano il tempo che trovano, un cantante può cercare, nelle pieghe del fraseggio, nell’espressione sentita dei sentimenti, una chiave per renderlo pieno, tridimensionale. Non so se Sala vi sia riuscito questa sera, ma l’aria «De’ miei bollenti spiriti» (II atto) è esemplare per il rispetto delle dinamiche; in tal senso, anche il duetto del III atto con Violetta lo vede interpretare con più convinzione. Il ruolo di Giorgio Germont è sostenuto da Christopher Maltman. Voce piena, granulosa, argentina, Maltman è forse un Germont meno austero di alcuni grandi nomi, ma grazie a questo suo timbro, baritonale sì, ma chiaro, riesce a rendere naturalmente il lato manipolatore, ambiguo del personaggio. La sua performance è sempre buona, anche se migliora con il riscaldarsi della voce: in particolare il II atto, nel duetto con Violetta, dove trova colori, appunto, ambigui, a tratti sinistri; ma anche nella celebre aria «Di Provenza il mar, il suol chi dal cor ti cancellò?», dove se ne apprezza maggiormente un lato lirico. I comprimari fanno tutti abbastanza bene: Ekaterine Buachidze (Flora Bervoix), Mariam Suleiman (Annina), Nicola Straniero (Gastone), Arturo Espinosa (Barone Douphol), Mattia Rossi (Marchese D’Obigny) e Viktor Schevchenko (Dottor Grenvil). Manca una doverosa menzione al Coro dell’Opera di Roma, che mostra di essere molto versato in quest’opera e merita gli applausi che gli vengono tributati, come del resto, alla fine, agli interpreti tutti.


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