L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Lo stile idiomatico. Dove?

di Francesco Lora

Qualche appunto di riflessione a margine del Don Carlo che ha inaugurato la stagione del Teatro alla Scala, al termine di un anno durante il quale il capolavoro verdiano è passato per la bellezza di altri dieci teatri italiani.

Milano, Don Carlo, 07/12/2023

Brescia, Don Carlo, 01/12/2023

Pavia, Don Carlo, 19/11/2023

Piacenza, Don Carlo, 12/11/2023

Modena, Don Carlo, 05/11/2023

Firenze, Don Carlo, 27/12/2022 e 08/01/2023

Napoli, Don Carlo, 29/11/2022

MILANO, 10 dicembre 2023 – A dispetto dell’impegno produttivo che tale capolavoro verdiano comporta, nell’ultimo anno Don Carlo non si è certo fatto desiderare sulle scene italiane: è stato allestito al Teatro di San Carlo di Napoli, al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino e al Teatro alla Scala di Milano – tre istituzioni massime, tutte, quantomeno nel periodo d’interesse, con sovrintendenti stranieri – nonché ancora nelle due cordate dei teatri di tradizione emiliano-romagnoli e lombardi. A più ferme bocce dopo il 7 dicembre scaligero, che ha siglato la serie delle cinque produzioni in ben undici teatri, tornano chiare le differenze tra i due blocchi, ossia le fondazioni liriche dirette da stranieri versus i teatri di tradizione diretti da italiani. In pillole: le fondazioni liriche possono sventolare il borsellino gonfio, comprano gli artisti più menzionati e costosi nel mercato internazionale, fanno notizia anche prima che si levi il sipario e al di là degli esiti effettivi; i teatri di tradizione uniscono forze esigue e ne formano una temibile, si aggiudicano artisti comunque ottimi guadagnandone la complice amicizia, innescano il passaparola tra appassionati riempiendo una sala entusiasta. È una questione di stile idiomatico. Quella che passa tra – da una parte – l’esibizione, in via dei Mille, Tornabuoni o Monte Napoleone, delle buste di Gucci, Hermès o Versace, con l’acquirente facoltoso che null’altro fa se non replicare su sé stesso ciò che ha visto nell’effimero manichino in vetrina, e – dall’altra parte – la signorilità dello scegliere un tessuto artigianale, dell’affidarlo al sarto giusto onde farne un pezzo unico e personale, o anche del far rivivere il vecchio capo indémodable e autenticamente connotante. Pericolosa, dunque, la contiguità del Don Carlo di Milano con quelli di Piacenza-Modena-Reggio-Rimini e Pavia-Cremona-Brescia-Como. Pericolosa per Milano, poiché i fari sono più che mai puntati sulla Scala, e poiché da quella doviziosa istituzione, dove tutto luccica e dovrebbe essere perfetto, si esce in verità, se non delusi, quantomeno ricchi o poveri quanto prima, immutati in un’esperienza melomaniaca che ha altrove – soprattutto in provincia – migliori palestre teatrali e musicali.

Dove la Scala stravince è nella qualità dell’orchestra e del coro, i quali conservano la più genuina e preziosa fonica all’italiana – morbidezza e cantabilità di fraseggio, naturale fragranza del bouquet timbrico – in un orizzonte nazionale e internazionale ove il benvenuto perfezionamento tecnico tende però a seguire il metallico modello germanico (come si tocca con mano anche a Firenze o a Venezia). Un altro trionfo personale – come già quello di Daniele Gatti al Maggio Musicale Fiorentino – riguarda Riccardo Chailly, che da quelle maestranze trae un tesoro inestimabile e idealmente complementare a quello del collega. Visto che già tutto o quasi è stato ormai scritto o detto, a partire dalla predilezione per tempi assai lenti e magistralmente sostenuti nella loro scabrosità, si segnalano pochi dettagli nel suo lavoro direttoriale; riguardano tutti il rapporto, caro a Chailly, tra il podio e il testo. Anzitutto: la scelta della versione di Milano 1884 (in quattro atti), ossia la mancata occasione di proporre la versione di Parigi 1867 (in cinque, di fatto un’altra opera, rara, più acconcia onde mettere a segno un gesto istituzionale forte, mai data completa alla Scala e invece già notevolmente proposta, negli ultimi anni, ad Amburgo, Vienna, Parigi, Lione, Liegi e così via). Poi: Chailly ha usato la ricercatezza di affidare la linea strumentale monodica, nell’introduzione al monologo di Filippo II, all’intera fila dei violoncelli (secondo l’uso francese: l’Opéra disponeva di una fila nutritissima) anziché a un solista (secondo l’uso italiano: il numero dei violoncelli era assai risicato); non è stata invece attuata la tentazione, pur dichiarata, di riaccogliere i ballabili parigini nella versione milanese, balzana ipotesi che tuttavia risale a Verdi stesso e si legge in una sua lettera del 1883; né il direttore ha colto il destro di richiamare l’attenzione sulle varianti d’autore: nella Canzone del velo, per esempio, la cadenza è quella canonizzata dalla tradizione, quando si disporrebbe di alternative finora lasciate mute sul foglio.

Mentre il regista Andrea Bernard, in Lombardia, fa con tre lire un teatro che morde cuore e mente, e mentre lo scenografo e costumista Alessandro Ciammarughi, in Emilia-Romagna, restaura l’antica arte del fondale dipinto e del guardaroba storico, Lluís Pasqual si perde in un simbolo che è non solo estraneo alla drammaturgia verdiana, allergica alle metafore, ma pure arduo da decifrare: un’incombente torre d’avorio che vorrebbe evocare un milieu distaccato e opprimente, ma sembra piuttosto fatta coi pannelli scorrevoli della casa a soffietto di Cio-Cio-San. Quanto al resto: errori di riferimento iconografico, come quello alla pittura di Diego Velázquez in un dramma ambientato tre quarti di secolo prima; pasticci (pasticciacci brutti) di logica drammaturgica, come la parte del Frate spezzata senza giustificazione artistica tra due diversi interpreti, dei quali, in modo riconoscibile, il primo tiene anche la parte del Grande Inquisitore e il secondo quella di un Deputato fiammingo; approssimazioni, come la recitazione lasciata all’iniziativa personale dei cantanti e il coro relegato a immobili posizionamenti simmetrici; cose superflue, infine, come i decorativi nani da Wunderkammer miscelati fra le comparse, secondo quanto già avvenuto nei Don Carlo di Napoli e Firenze (ma la Scala, più ricca, ne esibisce ben quattro in un colpo, anziché uno o due).

S’ha da parlare in ultimo dei cantanti, dove la legittima euforia di fare un copioso bottino di nomi celebri, per lo spettatore, convive con la presa di coscienza che ciò non procuri una garanzia. Intanto i nomi sono sempre quelli: Anna Netrebko, Francesco Meli e Luca Salsi costituiscono quasi una costante, da parecchi anni, per l’inaugurazione scaligera; ciò li porta a un continuo e non automaticamente progressivo confronto con sé stessi, e a intralciare involontariamente il salutare rinnovo dell’indirizzo artistico del teatro. Succede, così, quanto alla Netrebko e alla sua Elisabetta di Valois, che il prodigioso patrimonio vocale trovi ormai assuefatto l’uditorio, e che si notino soprattutto la poca cura nella prosodia italiana, l’iperrealismo espressivo corrente sulle scene mitteleuropee ma a un passo dal ridicolo su quelle nostrane, e in generale il poco interesse a naturalizzarsi artisticamente sotto il segno della Scala (che invece è stata casa e scuola di dive nient’affatto inferiori). Succede, così, quanto a Meli e alla parte eponima, che il cantante vada in caccia della sfumatura raffinata, sempre più spesso e più lodevolmente, come già con Myung-Whun Chung alla Scala stessa, nel 2017, e poi con Gatti a Firenze; l’inesorabile passare degli anni e il venire al pettine di nodi tecnici, però, gli rendono oggi insidioso tale percorso, costringendolo qui e là a convertire in gesto di difesa quello che avrebbe inteso essere un gesto d’attacco. Discorso differente circa Salsi: finché Luca Micheletti ed Ernesto Petti non lo raggiungeranno nel livello di maturità, egli rimane il massimo baritono italiano impegnato nella letteratura verdiana; la Scala è di ciò il legittimo premio, tanto più che il Rodrigo di Salsi vanta oggi un affinamento ben superiore rispetto alla prova di Bologna nel 2018, nonché addirittura rispetto a quella, concertistica e memorabile, di Modena nel 2021. La parte della Principessa d’Eboli, poi, è canonicamente quella che si porta via il maggior successo di pubblico: in ciò non fa eccezione Elīna Garanča, nelle recite alla Scala come già in quelle dell’anno prima al San Carlo; ciò non dispiace allo scrivente, ma nel contempo lo stupisce: proprio ora che il canto di questo mezzosoprano, dopo lustri di carriera, va indurendosi e ingrigendosi, la platea italiana, ignara dei tempi passati, tributa un tardivo trionfo.

Avvicinandosi alla somma finale, conviene ricordare lo spunto di partenza, ripetendolo, rifilandolo, tropandolo. I teatri che nella Penisola dovrebbero costituire la roccaforte dell’italianità stilistica, con l’aiuto degli artisti in ciò più ferrati e forbiti, tendono più che mai nel presente, al contrario, a fare propri i costosi modelli anti-idiomatici del circuito inglese, francese e soprattutto austro-tedesco, in barba al completo possesso della lingua, della scuola, del senso delle proporzioni e delle gerarchie. Milano come Vienna, Napoli come Parigi, Firenze come Zurigo. Ma i massimi teatri italiani, peculiari brands di qualità, hanno davvero bisogno di convertirsi nei cloni di altre istituzioni nel panorama estero?

Quanto alle gerarchie, cui s’è fatto cenno, si veda il caso della soluzione intorno alla parte, breve nel numero di battute ma gigantesca per peso teatrale, del Grande Inquisitore: era stato in origine scritturato non un artista di primissimo piano – come ci si aspetterebbe dalla Scala: un Roberto Scandiuzzi, un Ildebrando D’Arcangelo – bensì l’affidabile Ain Anger, poi rimpiazzato da Jongmin Park, plausibile sì, ma fuori taglia per il più muscoloso teatro italiano. Eppure il rimedio c’è, non è difficile individuarlo, e quando lo si è lasciato fuori dalla porta, la provvidenza di santa Cecilia può farlo rientrare dalla finestra. Per la parte capitale di Filippo II – ecco che s’inizia a spiegare – era stato ufficiosamente candidato Ildar Abdrazakov, che però da un annetto ha preferito associarsi alla propaganda nazionalistica pro-putiniana, fino ad abbandonare in acque poco chiare le recite dell’ultimo Boris Godunov alla Scala. Sulla locandina ufficiale era stato allora annunciato René Pape, nella perplessità di chi, fin dalle recite a Firenze nel 2004, conosce la sua inadeguatezza linguistica, stilistica, naturale e tecnica alla parte (che non è il Gurnemanz di Parsifal né si presta a cavallo di battaglia in un avviato declino di carriera). È finita con la Scala che, a poche settimane dal debutto, ha dovuto chiamare d’urgenza Michele Pertusi: quegli che da quarant’anni è un eroe del canto italiano, quegli che proprio allora stava commovendo come Filippo II a Modena e quegli che mai, prima, era stato invitato a inaugurare la stagione d’opera a Milano. Manco a dirlo, Pertusi ha impartito urbi et orbi una lezione su ciò che in ogni Don Carlo si vorrebbe, dalla prima all’ultima nota, grazie alla sterminata esperienza, alla consapevolezza assoluta, alla semplicità comunicativa, alla pertinenza retorica; ha accompagnato ciò col virtuosismo del cantante ammalato, alla prima recita, che regalmente doma col magistero tecnico l’indisposizione stessa. Star system debellato, cerchio chiuso da sé.


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