L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Uchida narra Beethoven

di Lorenzo Cannistrà

Mitsuko Uchida torna a Milano per Società del Quartetto, regalando un’interpretazione speciale, per intensità e bellezza, delle ultime sonate di Beethoven.

Come accade nelle grandi occasioni, la sala Verdi del Conservatorio di Milano è gremitissima per un sold out ampiamente annunciato. Mitsuko Uchida, la gran dama del pianoforte, legata da lunga amicizia con la presidente del la Società del Quartetto, Ilaria Borletti Buitoni, si esibisce nell’unico recital italiano della stagione. E lo fa non con un programma qualsiasi, ma con l’ultimo Beethoven delle sonate opp. 109, 110, 111, che Uchida aveva inciso già nel 2006. L’esito artistico di quel disco fu estremamente felice, ma un’esecuzione live a diciotto anni di distanza rende quest’appuntamento pressoché imperdibile per diverse ragioni.

Innanzitutto ogni grande interprete – e Dame Uchida non fa eccezione – sa bene che i capolavori approfonditi nel corso di una lunga carriera non giacciono inerti sul fondo della coscienza, ma vengono costantemente “ruminati”, ripensati e sovente riproposti con l’urgenza di dire qualcosa di nuovo. I capisaldi del repertorio di un pianista sono come vecchi amici sempre presenti, silenti e discreti, ma pronti a saltar fuori per fare il punto della situazione, capire dove si è arrivati, con la consapevolezza di una nuova maturità. Ed è proprio il raffronto con quella celebre incisione a far emergere in pieno il risultato dell’evoluzione interiore, come si dirà tra poco.

In secondo luogo (ed ho già avuto modo di sottolinearlo in una recensione del 2022, Il coraggio di MitsukoMilano, concerto Uchida, 26/04/2022), Uchida è un’artista che fa della discrezione e del volontario “anonimato” la sua cifra artistica più rilevante ponendosi nel solco tracciato da quei pianisti – molto rari in verità, e Pollini in testa a tutti – che, pur non potendo ovviamente definirsi meri esecutori senz’anima, al tempo stesso sanno comprimere il proprio istinto a favore del rispetto dell’idea musicale. Si tratta di artisti che si mettono al servizio del compositore, facendo fare un passo indietro all’originalità fine a se stessa o al pathos del momento. Anche in questo recital la pianista giapponese non smentisce questo profilomolto speciale.

Sin dalle prime note si percepisce infatti che Uchida è una pianista sempre “in presa”. Non c’è spazio per furbe affabulazioni o abbandoni lirici gratuiti, ma è palpabile la concentrazione, il servizio, appunto, da rendere a Beethoven e non a se stessa. Il controllo digitale e la pedalizzazione accurata sono l’evidente risultato di un lavoro pregresso mai tralasciato a favore dell’improvvisazione in sala da concerto. Ed a questo proposito occorre dire che i settantacinque anni della pianista si possono appena avvertire solo sulla tenuta concertistica (si registrano due o tre occasionali svarioni, ininfluenti), non certo su testa e dita, che funzionano ancora benissimo.

Un’aura fantastica circonda l’op. 109, il cui primo tempo fluisce esaltando il carattere improvvisativo della scrittura, che nasconde il rigore della forma-sonata. Nel terzo movimento, dopo la tenerezza non esibita del tema, ciascuna variazione ha il carattere ben definito di un minuscolo personaggio.

Nell’op. 110 Uchida tira fuori un primo tempo di bellezza inarrivabile. L’incipit della sonata richiede controllo e discrezione sovrumani, al pari del temibilissimo attacco del Quarto concerto, e la pianista giapponese lo risolve come meglio non si potrebbe. Tutto il movimento si caratterizza per la perfetta giustapposizione degli elementi tematici, ciascuno perfettamente stagliato e tuttavia in perfetta armonia con gli altri. Colpisce l’uso dei piano e pianissimo sia nelle figurazioni veloci, vaporose e quasi impalpabili, che nella sezione centrale in cui il tema principale sembra farsi sotterraneo. Un equilibrio davvero prodigioso che si ritrova anche nell’Arioso dolente,ma che nella doppia fuga lascia poi spazio ad un’idea forte. I temi vengono infatti esposti con un simmetrico rallentamento alla fine della frase, riprodotto con precisione in tutti gli ingressi (ben nove solo nella prima fuga). I tempi sono molto più moderati di quanto generalmente si ascolta ed anche rispetto alla stessa incisione del 2006. Le fughe, specialmente la prima, ne vengon fuori come dissezionate, osservate al microscopio, severamente analitiche. Il finale, pur nel tripudio della scrittura pianistica, segue quel disegno e ci viene restituito dilatato e grandioso, più che orgiastico.

Nell’op. 111troppi sarebbero i dettagli da riferire, e si finirebbe per abusare dello spazio normalmente necessario per un recensione. Si menzionano soltanto, nel primo tempo, le ottave secche ma non pesanti del contrappunto doppio, la delicatezza dei melismi del breve secondo tema, le attese misteriose nello sviluppo, la vaporosità della coda in maggiore. Nella celebre Arietta i momenti più indimenticabili si ritrovano nella gestione del ppp nella quarta variazione e nel ritorno del tema nel finale (o sesta variazione che dir si voglia), rivestito da un trillo non fittissimo, che avvolge la melodia in un’atmosfera rarefatta e di una bellezza onestamente irriferibile.

In definitiva il Beethoven di Uchida risente probabilmente dell’ultima lezione del suo maestro, Wilhelm Kempff. Lontana da ogni tentazione di titanismo o di compiacimento analitico, la pianista giapponese ha offerto al pubblico milanese controllo, razionalità, discrezione, servizio al compositore. Ma questa sera si è avvertito anche qualcos’altro (presente in minor misura nella citata incisione del 2006), ovvero il gusto di una sapiente narrazione, in cui l’eloquio musicale imita quello naturale del racconto. Uchida è stata l’attrice che non declama, ma espone senza enfasi oratoria, con il ritmo naturale di chi vuole farsi ascoltare e capire. Le pause, le accelerazioni, i crescendo ed i subitanei ripiegamenti hanno avuto la varietà e l’intimità della lettura di una favola a bambini riuniti in cerchio.

E come l’applauso dei bambini parte spontaneo insieme agli “ohhh”, allo stesso modo il pubblico della sala Verdi ha risposto, tributando la giusta ovazione alla grande signora giapponese del pianoforte.


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