L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Händel intero

di Francesco Lora

Esecuzione in forma di concerto, e soprattutto lodevolmente integrale, di Alcina al Teatro alla Scala: Marc Minkowski e Les Musiciens du Louvre tengono il campo con coscienza stilistica maggiore di quella della compagnia di canto, ove Anna Bonitatibus – più di Magdalena Kožená o Erin Morley – è temibile pietra di paragone.

MILANO, 8 febbraio 2024 – Il repertorio operistico antico prende sempre più piede nei teatri italiani, dopo decenni passati a lasciare che i cartelloni esteri dettassero legge. Curiosamente, a far la parte del leone sono però i secondari teatri di tradizione anziché le facoltose fondazioni liriche: gli uni hanno infatti mani piuttosto libere nel convocare i musicisti ritenuti più adatti al singolo progetto, mentre le altre devono fare i conti con le loro maestranze stabili e non sempre pronte alla versatilità. Ottima dal punto di vista istituzionale – benché problematica da quello spaziale: la sala piermariniana è troppo vasta – risulta dunque l’iniziativa del Teatro alla Scala, che non solo – ed è già molto – dedica al Seicento e alla prima metà del Settecento almeno un titolo per stagione, ma anche ospita a Milano le produzioni internazionali di ampio respiro che vanno percorrendo l’Europa: il 25 marzo vi sarà eseguita la Matthäus-Passion di Bach, diretta da Philippe Herreweghe e col Collegium Vocale Gent, mentre il 30 giugno sarà la volta della Fairy Queen di Purcell, diretta da William Christie e con Les Arts florissants. Nel frattempo, l’8 febbraio l’ideale ciclo è stato aperto da un’altro concerto dedicato ad Alcina di Händel, diretta da Marc Minkowski e con Les Musiciens du Louvre: s’è trattato del debutto di questi ultimi alla Scala, e della riproposta di una lettura già data all’Opéra National di Bordeaux, giusto un anno prima (meno un giorno), con gli stessissimi interpreti, indi fissata in CD per l’etichetta Pentatone e finalmente distribuita alla vigilia della ripresa a Milano. Nella registrazione e ancor più dal vivo si appuntano luci e ombre, come sempre avviene; lungo il loro giustapporsi e miscelarsi, però, esse danno qui materia utile onde fare un possibile punto sull’attuale stato esecutivo del predetto repertorio, italiano e händeliano in particolare.

Va espressa anzitutto una lode, a gran voce. Specie quando circolano in forma di concerto, infatti, le opere del Sei-Settecento sono perlopiù tacitamente presentate in una corposa selezione, ove i brani sono stralciati in toto o al loro interno, con massacro dell’equilibrio formale e della logica drammaturgica. Un esempio di ciò s’è avuto anche alla Scala, nel giugno 2023, mediante Carlo il Calvo di Porpora, diretto da George Petrou e con Armonia Atenea (a dispetto di un Franco Fagioli primo uomo nientemeno che onnipotente e sbalorditivo per corredo tecnico, nonché di una Julia Lezhneva alle prime crepe vocali ma tuttora seconda per virtuosismo alla sola Cecilia Bartoli). Ecco il risultato di simili operazioni condotte a colpi di machete: il discorso musicale e teatrale perde scorrevolezza e comprensibilità, e l’uditorio sgravato d’interi quarti d’ora d’ascolto finisce – paradosso – per annoiarsi, anzi per dichiarare il proprio affrettato disinteresse verso lavori invece avvincenti. Sia chiaro: nell’esecuzione musicale, se non nella prassi teatrale, i tagli sono pressoché sempre la spia di un’insufficienza dell’interprete, il quale non ha capito o non è capace, ovvero rappresentano l’insinuazione che il pubblico non abbia – né meriti di maturare – i requisiti per apprezzare il testo integrale. Minkowski – ecco il punto – va in senso contrario alla pessima abitudine dilagata, e presenta Alcina nelle perfette proporzioni delle sue tre ore e un quarto di musica. Tempo che vola, grazie anche a un’orchestra opportunamente numerosa d’archi, risonante, incisiva, con fraseggio che ha pure valore paesaggistico-narrativo, e con timbrica di luminosa setosità, all’occasione spruzzata di sulfureo: il tutto non è affatto comune nelle compagini con strumenti originali, dal vivo anziché in disco, e giova tanto più a Händel, con le sue evidenti influenze francesi nella scrittura strumentale.

I pericoli incombono piuttosto sulla formazione della compagnia di canto. Il contesto internazionale ha infatti incoronato, come specialisti di questo repertorio, artisti di sempre più disparata afferenza culturale, dotazione canora ed educazione musicale, confondendo le priorità dei professionisti e il gusto degli ascoltatori. La più diffusa insidia degli ultimi anni è forse un’infondata ma convinta concezione dello stile idiomatico, là ove si canta in italiano e all’italiana: lo straniero s’affanna nelle masterclass di tecnica vocale e nei seminari di trattatistica, ma dimentica spesso d’assimilare con naturalezza una lingua da praticarsi tutta a base di sottili e vivaci sfumature, nelle quali si riflette, più che in altre, la cultura italiana, affettuosa, colorita e ironica; se manca questa esperienza pregressa, passare dall’inerzia espressiva all’iperrealismo ridicolo, senza le mezze misure nelle quali si gioca per contro la partita, è un lampo e un lampo penoso. Magdalena Kožená, come protagonista, ne fa le spese agendo ormai senza smalto, in una tessitura autenticamente sopranile e dunque troppo acuta, ora calligrafando ora digrignando un’enciclopedia psicologica invece umanissima. Erin Morley, cristallina, e Valerio Contaldo, arruffatello, fanno l’errore di prendere Morgana e Oronte come una coppia buffonesca anziché spensieratamente parallela allo sfortunato amore di Alcina. Elizabeth DeShong possiede registro grave e agilità minuta di Bradamante, senza però conferirle carattere. Alois Mühlbacher gracchia volonterosamente le tre arie di Oberto, mentre Alex Rosen, Melisso, cammina sulle uova nell’unica sua. La temibile pietra di paragone è data – guarda un po’ – da un’immacolata madrelingua, Anna Bonitatibus: vocalità spontaneamente calda, legata, sciolta, omogenea, gagliarda, con un porgere della parola sopraffino e insieme schietto e palpitante; un Ruggiero favoloso.


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