L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Die schöne Müllerin: la ruota e il ruscello

 di Roberta Pedrotti

Il ciclo Ritratto d'artista: Ian Bostridge - Schubertiade del Bologna Festival si apre con Die schöne Müllerin nella Biblioteca di San Domenico, cornice perfetta e suggestiva per un'interpretazione tanto singolare quanto intrigante, secondo la cifra stilistica inconfondibile dell'artista inglese, sempre in proficuo sodalizio con il pianista Julius Drake.

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Bologna, Bostridge-Schubertiade III, 20/11/2016 Schubert, Schumann, Britten

BOLOGNA, 16 novembre 2016 - C’è qualcosa di demoniaco in una Liederabend di Ian Bostridge (e, ovviamente, del suo sodale prediletto Julius Drake), una fascinazione per una sorta di genio bizzarro, enigmatico, che scardina ogni certezza, reinventa la stessa espressione vocale, ma lo fa alla luce di una lucidissima analisi, di un’intelligenza carismatica e, soprattutto, di un’estremizzazione interpretativa che non può lasciare indifferenti, non può non lasciare il segno.

I primi due concerti di questo ritratto d’artista proposto in tre pannelli dal Bologna Festival sono consacrati ai due grandi cicli schubertiani, Die schöne Müllerin e Winterreise, un accostamento che è anche un rispecchiamento, instaura un rapporto di consequenzialità e contrasto fra primavera e inverno, fra azione e riflessione.

Die schöne Müllerin, infatti, è di per sé una narrazione dinamica, possiede una propria palese drammaturgia, là dove Winterreise si svolge tutta nei meandri psicologici del Wenderer, nei suoi pensieri di viandante notturno e solitario.

Entusiasmo giovanile, amore non corrisposto, ansioso corteggiamento, ebrezza per la felicità raggiunta, presagio, ombra del tradimento e annichilimento, anelito di morte si collocano nel rigoglìo primaverile, fra lo sbocciare dei fiori, il verdeggiare di boschi e radure, lo scorrere del torrente e il moto perpetuo della ruota del mulino.

Così come il Cherubino mozartiano esprime i suoi palpiti adolescenziali su e giù per il pentagramma, raffigurando con classica stilizzazione, in alcune repentine discese, l’ambiguità di una voce soggetta a cambiamenti ormonali, così il giovane mugnaio di Bostridge ondeggia fra ombre virili e sottili suoni bianchi, fra la baldanza esuberante di chi si sente maggior di se stesso, e un’improvvisa timidezza, fra scoramento e rabbiosa violenza mal trattenuta fra i denti. Questa voce di un’adolescenza irruente e incoerente non si sublima, però, nel belcanto, non leviga i suoi spigoli in un’idealizzazione estetica; viceversa vede i suoi estremi e i suoi contrasti aprirsi come crepe man mano che le speranze, l’ottimismo, le felicità del mugnaio si sgretolano. Si rivelano gli spettri della sua angoscia, una nemesi racchiusa nella sua stessa anima, come traspare dal carattere enigmatico del dodicesimo Lied, Pause. Da lì anche le forme strofiche popolareggianti, finora prevalenti, sembrano dissolversi, o, meglio, riproporsi come echi allucinati, ostinati involucri cui aggrapparsi nel crollare d’ogni certezza, deliranti residui. Qualcosa si è spezzato nell’apparente semplicità del ragazzo innamorato, e vien da chiederci quanto vi sia di reale nella sua relazione con la mugnaia, ma, soprattutto, nel tradimento, nella di lei leggerezza e nell'improvvisa scomparsa come presenza concreta e interlocutrice. Coesistono e quasi si sovrappongono l’incapacità di accettare ed elaborare la realtà del tradimento e della fine di un amore e, pure, la percezione, ab origine, di una realtà distorta, l’incapacità, preda delle proprie ossessioni, di accettare e intendere il mondo che lo circonda. L’ambiguità profonda con cui la musica addensa molteplici significati nei versi di Müller, che Bostridge accarezza o morde, dilata, sibila o sospira, è amplificata da quest’emissione totalmente svincolata dalle regole tradizionali e del tutto sottoposta alla rigorosa logica interna dell’analisi e della sintesi espressiva dell’artista. Il senso appare allora coerente e cangiante, uno e molteplice come lo scorrere sempre rinnovato delle acque del ruscello, un panta rei dialetticamente affiancato dal moto perpetuo della ruota del mulino, attorno allo stesso perno, costantemente nello stesso luogo, come il ciclo imperturbabile della vegetazione invocato con isnsistenza dal Mugnaio nel desiderio, nella gioia e nel dolore senza speranza.

Questa musicalità anticonvenzionale e totalizzante con cui Schubert si avvolge e si addensa su Müller non può prescindere da un rapporto particolarmente intenso con il pianoforte, un rapporto fisico, che vede Bostridge non solo scuotere la sua figura sottile fra la curva della cassa armonica e il bordo del palco, non lo vede solo man mano trasfigurarsi, quasi il viso fosse tutt’uno con il suono, accendendosi, sbiancandosi, componendosi e scomponendosi con il suono; Bostridge ha un contatto tattile con lo strumento, si sporge sulla tastiera e sulle corde, si aggrappa al nero lucido, dialoga ben oltre le note con Julius Drake. Fraseggiano insieme, respirano insieme e condividono metro, ritmo e prosodia, il confronto di contrasti ed equilibri fra melos e parola prosciugata, fra morbidezza e asprezza. Creano, fra il mulino e il ruscello, un piccolo mondo a sé con una tale lucidità e coerenza che sembra impossibile non subirne il fascino. È un moto perpetuo nel quale non è possibile dire all’attimo fuggente “Arrestati, sei bello!”, ché tutto svanirebbe. Solo “Gute Nacht”, alla fine, con un istante d’interminabile silenzio e un calorosissimo applauso.


 

 

 
 
 

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