L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Un Requiem sotto il cielo di Roma

di Stefano Ceccarelli

Il festival estivo dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia si apre con una bella e sentita esecuzione del Requiem di Verdi. Tutte le maestranze e gli artisti (o quasi) sono al debutto, ivi compreso il giovanissimo direttore Alessandro Bonato, i solisti (Isotton, Savignano, Solodkyy e Li) e l’Orchestra dei Conservatori; il coro, però, è quello stabile dell’Accademia.

ROMA, 12 luglio 2023 – La stagione estiva nella suggestiva cavea dell’Auditorium “Ennio Morricone” viene inaugurata da un evento per molti versi speciale: l’esecuzione del Requiem di Giuseppe Verdi. L’unicità di tale evento, però, risiede nel fatto che ad eseguire l’opera è un’orchestra (Orchestra Sinfonica Nazionale dei Conservatori) composta dai migliori membri dei conservatori italiani. Giovanissime maestranze al servizio di un’opera, il Requiem, di indubbia complessità, ma che stimola il cimento dei giovani talenti a dare molto.

A dirigere la partitura è un giovanissimo e talentuoso direttore, Alessandro Bonato, al suo debutto nei concerti dell’Accademia. Il lavoro fatto da Bonato con l’orchestra è ottimo ed in generale si nota la cura spasmodica profusa dal direttore nelle varie sezioni dell’opera. Bonato opera una ricerca notevole nelle tempistiche e nell’agogica generale del Requiem, acuendo – se possibile – i suoi aspetti sacri, meditativi, a discapito di una lettura puramente slanciata, eroica, indubbiamente accattivante, ma troppo melodrammatica. Ciò è provato, su tutti, dalla sezione del Dies irae, che Bonato scandisce con ieratica precisione (rigoroso il gesto della bacchetta) permettendo al coro di accumulare tensione nell’emissione poderosa del suono – del resto, il Dies irae rappresenta il giorno del Giudizio. Nelle sezioni dei solisti, invece, Bonato è più spedito, talvolta abbracciando una visione più operistica, senza mai tradire, comunque, la natura del Requiem. È un peccato non aver potuto ascoltare questa esecuzione al chiuso, in una sala con una degna acustica: la cavea dell’Auditorium, del resto, per quanto sia affascinante d’estate, a cielo aperto, restituisce il suono in maniera certo poco omogenea, nuocendo al lavoro di fino dei concertisti. L’orchestra, che segue benissimo il direttore, si distingue per professionalità e rigore, portando a casa una buona performance.

La parte del soprano è cantata da Chiara Isotton. Dotata di una voce solida e centrata, che maneggia assai bene nella tessitura mediana e nei passaggi di registro, solo di tanto in tanto con qualche lieve durezza, la Isotton regala bei momenti, in particolare il celebre Libera me finale – dove forse eccede nello slancio della parte d’attacco, ma svetta nell’etereo fraseggiare assieme al coro. Ottima nei duetti con la collega Savignano, cioè nel Recordare e nell’Agnus Dei. Nel Recordare le voci si impastano in maniera sublime, inanellando la dolce melodia; nell’Agnus Dei il sovrapporsi delle voci a cappella è particolarmente pregevole, come il resto dello sviluppo. Irene Savignano è un mezzosoprano dotato di una voce pastosa, piena e florida. Magnifico il Liber scriptus, dove fraseggia e scandisce con maestria una melodia implacabile nel suo scorrere; dei duetti con la Isotton si è già abbondantemente detto, quindi converrà ricordare che la cantante si distingue negli ensemble sempre per bellezza dell’emissione. Il tenore Vasyl Solodkyy ha una voce piena, ricca di armonici, soprattutto nella parte centrale, perdendo lievemente, anzi assottigliando l’emissione quando sale in acuto; il fraseggio è nobile, molto ben posato. L’interprete fa molto bene nell’Ingemisco, in particolare donando colore e sfumature all’aria, intimistica, sospesa, fra le più ispirate di Verdi; la parte in cui verticalizza esce, appunto, un po’ assottigliata, ma ciononostante piacevole. Il basso HuanHong Li, che mostra una voce profonda, uniforme e stentorea, forse interpreta in maniera incolore la sua parte, ma tecnicamente ineccepibile. Lo si nota bene nel Confutatis, cui manca un po’ di tremendum (utilizzando una definizione cara a Rudolf Otto). I quattro, comunque, funzionano assai bene sotto la bacchetta di Bonato, nei quartetti – ragguardevole l’Hostias, dove le voci si amalgamano dolcemente, o il Lacrymosa, intenso e sublime. Un protagonista indiscusso del Requiem, del resto, è il coro, in questo caso quello stabile dell’Accademia: una resa straordinaria, che si è goduta soprattutto nei momenti più travolgenti: l’implacabile Dies irae, ma anche il profluvio di voci che seguono le trombe del Giudizio Universale (Tuba mirum). Le sfumature, i filati ed i pianissimi, disseminati nella partitura, emergono anche nel Sanctus ricco di colori.

Tirando le somme, dunque, una serata ottimamente riuscita, frutto dell’impegno di artisti e maestranze giovanissime che hanno omaggiato il Requiem di Verdi sotto il limpido cielo romano.


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