L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

I colori del tardo Romanticismo

 di Stefano Ceccarelli

L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia presenta un riuscito concerto in cui Paavo Järvi dirige il Prélude à l’après-midi d’un faune di Claude Debussy, il Concerto in re minore per violino e orchestra op. 47 di Jean Sibelius e la Sinfonia n. 5 in si bemolle maggiore op. 100 di Sergej Prokof’ev. Solista del concerto di Sibelius è Augustin Hadelich, al suo debutto all’Accademia.

ROMA, 22 febbraio 2024 – C’è stato un momento, in Europa, a cavallo fra XIX e XX secolo, culturalmente florido: mentre gli europei insanguinavano il mondo con un rapace colonialismo, nella madrepatria fiorivano estetiche che hanno imperniato della loro eredità il secolo a venire. Appartiene all’ultimo decennio dell’800, infatti, una delle opere più iconiche della storia della musica: il Prélude à l’après-midi d’un faune di Claude Debussy, che apre l’intenso programma studiato da Paavo Järvi per questo suo concerto romano. Ispirato ai versi simbolisti di Mallarmé, il Prélude è di una sensualità impareggiabile, pura sensazione in musica, misto di emozioni che si fanno fisiche, epidermiche, miscelando sonorità che vengono anche da molto lontano. L’orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia suona magnificamente, facendo emergere plasticamente le screziate, fin dall’ipnotico attacco del flauto traverso (complimenti a Adriana Ferreira). La direzione di Järvi è essenziale senza essere scarna, evita gesti eccessivamente carichi, non lesina aumenti considerevoli di volumi, ma non indulge, melensamente, nei pur splendidi passaggi cromatici. L’effetto è quello di una lettura che appare naturale, quasi immediata (anche se, naturalmente, è arte di sprezzatura). Sonori applausi si congratulano con maestranze e direttore.

La seconda parte del primo tempo vede il debutto romano di Augustin Hadelich, che si esibisce nel Concerto per violino di Jean Sibelius. «Sia per la cronologia sia per il suo stile si può ben dire che questo è l’ultimo concerto per violino dell’Ottocento e il primo del Novecento», come ben scrive Mauro Mariani, nelle dotte note di sala. In effetti, il concerto di Sibelius è una versione più austera, ma non meno intensa, dell’effervescente, celebre concerto čajkovskijano. Hadelich, la cui dote più notevole è l’impressionante precisione tecnica, coniugata ad una sopraffina pulizia sonora, riesce a generare un suono pieno, terso, che si sposa perfettamente con la tipologia di virtuosismo scelta per questo concerto da Sibelius. La lettura di Hadelich è, dunque, straordinaria, per tutta la durata del concerto. Il movimento più complesso è, certamente, il I (Allegro moderato), dove ad Hadelich viene richiesto un suono pieno, sobbalzante dalla tessitura più bassa a quella più acuta della corda di violino, mantenendo spesso, intenso, lo spessore sonoro; l’interprete dà prova non solo di agilità, ma anche di energia (con acuti penetranti come rasoi), di sensibilità e fraseggio, cogliendo i colori e le sfumature terrigne, a tratti glaciali, che sovente caratterizzano il dettato di Sibelius – indimenticabile il trillo nella conclusione della cadenza, che Hadelich lascia scorrere con cristallina agilità. L’intesa con Järvi è eccellente: l’estone dona un’intensa lettura della parte orchestrale, non limitandosi a far cantare il violino, ma facendo emergere voluminoso il discorso orchestrale. La mano più delicata di Järvi si scorge nel II movimento (Adagio di molto), che vede l’interprete impegnato nel colorare una melopea chiaroscurale, dalla fibra sonora corposa, sorretta da un’orchestra che sovente svapora: qui il talento di Hadelich è soprattutto cromatico, ma non meno elegante. Nel III, dal carattere spagnoleggiante, la parte del violino assume un afflato virtuosistico più spedito e l’italo-tedesco mostra anche di saper gestire una linea più leggera ma irta di fioriture: il risultato è vibrante, mercé anche l’agogica energica svelta di Järvi. Gli applausi invadono la sala: nel congedarsi, Hadelich suona due bis, una versione di Por una cabeza di Carlos Gardel e Wild Fiddler’s Rag dell’americano Howdy Forrester.

Il concerto si conclude con la Quinta di Prokof’ev, che occupa il secondo tempo. Järvi mostra ancora polso fermo, ricercando un’agogica che esalti l’intelaiatura ritmica della sinfonia, soffermandosi sulla struttura generale più che sui particolari: ciò gli consente di non ingolfarsi ritmicamente e di donare un’esecuzione trascinante, vivida, brillante, che rende giustizia della complessa scrittura prokofeviana, soprattutto dei suoi giochi ritmici, che si rincorrono e sovrappongono in una tessitura complessa di cui Järvi trova una quadra chiara e limpida nella resa. Insomma, ciò che riesce veramente bene a Järvi è la verticalizzazione volumetrica dell’orchestra, che in una sinfonia come la Quinta è essenziale (l’Andante iniziale, ma soprattutto l’Allegro giocoso finale ne sono fulgidi esempi), vista anche la funzione trionfalistica, direi vitalistica, che la sinfonia assume nelle intenzioni dell’autore, in ottemperanza al gusto del regime sovietico. Infatti, la Quinta (la cui prima esecuzione fu a Mosca, il 13 gennaio del 1945) doveva celebrare la grandezza della vittoria russa nella Seconda Guerra Mondiale: «quel che le autorità si aspettavano da questo genere di sinfonie era la celebrazione dell’eroismo del popolo russo e l’esaltazione del radioso futuro che l’attendeva. Ma Šostakóvič e Prokof’ev riuscirono a sottrarsi a quel bagno di retorica, il primo evidenziando la vacuità delle celebrazioni della vittoria ed esprimendo piuttosto l’orrore della guerra, Prokof’ev guardando oltre la guerra: come affermò egli stesso, con la sua Quinta sinfonia aveva voluto “glorificare lo spirito umano […] cantare l’uomo libero e felice, la sua forza, la sua generosità e la purezza della sua anima”» (parole sempre di M. Mariani). Järvi è straordinario nel mantenere viva la tenuta ritmica dell’intera impalcatura sinfonica: lo si è visto nel guizzante, ironicamente marziale Allegretto marcato, come pure nell’Adagio, di spessore sonoro mahleriano, anch’esso verticalizzato con maestria dall’estone. Gli applausi risuonano fragorosi, a testimoniare l’indubbio apprezzamento del pubblico.


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