L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

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Diamo i numeri

 di Giuseppe Guggino


Il 7 dicembre è il giorno dell’anno nel quale anche chi non si è mai interessato all’opera vede al telegiornale almeno un brandello di spettacolo con l’inevitabile strascico sui minuti di applausi, sulle presenze e assenze in platea, sulle proteste fuori e dentro. La percezione che si rischia di averne è tanto distorta da cosa è realmente uno spettacolo operistico che probabilmente i più dei non melomani si scandalizzerebbero nel sapere che tutto questo baillame è - in larghissima parte - a carico dei contribuenti; probabilmente le cifre del teatro d’opera in Italia non sono note nemmeno ai melomani osservanti, per cui ogni tanto è bene “dare i numeri”, possibilmente nella loro interezza e complessità. Buona lettura.

Leggi la seconda puntata Fondazioni liriche: comparare e dividere

«L'attività dell'impresa melodrammatica è evento statisticamente improbabile quanto il comportamento piccolo borghese delle famiglie reali» è l’ironico convincimento di un noto manager culturale vergato nelle pagine di un quotidiano nazionale negli anni ’90 e, partendo da queste premesse ideologiche, non è difficile pronosticarne gli esiti gestionali; con altrettanta ironia si potrebbe chiosare che un suo illustre predecessore nel medesimo teatro, un tal Domenico Barbaja, magari assistito dal santo protettore del gioco d’azzardo, sfidava puntualmente le leggi della statistica, avendone peraltro puntualmente ragione. In effetti, però, dalla prima metà dell’ottocento, nel giro di un secolo, il mercato operistico subisce radicali cambiamenti sia in termini di offerta che di domanda. Almeno fino agli anni ’20 del ‘900, i contributi pubblici al teatro d’opera erano minimi, a fronte dell’attività di “impresari” (in genere legati al territorio di appartenenza) dai Visconti di Modrone alla Scala fino ai Florio al Massimo di Palermo; è primo dopoguerra che, con il contributo decisivo del “blocco sociale fascista” degli inizi (tra le cui fila si candida, sebbene con esito fallimentare, anche Arturo Toscanini), la Scala si tramuta in Ente pubblico (1921) seguita dal Teatro dell’Opera di Firenze e di Roma (1932) e, infine, con il Regio Decreto Legge 3 febbraio 1936 n. 438 convertito in Legge n. 1570 del 4 giugno 1936, da tutti gli altri teatri d’opera principali del territorio nazionale.
Nel secondo dopoguerra, confermato in Costituzione l’impegno dello Stato a sostegno della cultura, occorre che il sistema degli Enti teatrali galleggi per 21 anni tra vari provvedimenti temporanei, prima di arrivare ad un assetto organico del sistema di governance (come si direbbe oggi) e di finanziamenti pubblici che è la legge n.800 del 14 agosto 1967. Il dispositivo legislativo, meglio noto come “Legge Corona”, sancisce “l’attività lirica e concertistica di rilevante interesse generale” e opera una suddivisione dei teatri d’opera e istituzioni concertistiche in undici “Enti autonomi” più due “Istituzioni concertistiche” principali (CAPO II, art. 6) e “teatri di traduzione” e “istituzioni concertistico orchestrali” minori (CAPO III, art. 28), assegnando alle prime un contributo annuo di 12 miliardi di lire annui e alle seconde un contributo variabile funzione del gettito dal canone RAI e di altre coperture finanziarie. Non manca ovviamente la prima indulgenza plenaria: all’art. 53 tutti i debiti consolidati al 1966 si trasformano in mutui con ammortamenti in 9 anni con interessi totalmente a carico dello Stato.
Nel 1996-’98 teatri di cui all’art. 6 della Legge Corona si trasformano in Fondazioni Lirico-Sinfoniche con la variazione dell’istituzione Palestrina, divenuto negli anni “Teatro Lirico di Cagliari” e con l’aggiunta del Petruzzelli di Bari (dal 2008) in “promozione” dalla categoria “teatri di tradizione”, diventando così 14. Non c’è mese che passi in cui un Ministro non si lasci sfuggire che 14 fondazioni sono troppe, che con la cultura non si mangia, che la conversione in “Fondazioni di diritto privato” non ha funzionato… il fatto è che una dichiarazione estemporanea d’agenzia non basta a fotografare una situazione critica per varie ragioni, cosa che invece si cerca di fare qui di seguito, con una valanga di numeri.
Partiamo dall’osservare le quantità; il grafico seguente mostra l’andamento del contributo statale per i 13 “teatri importanti” della legge Corona dal 1967 al 2001 confrontandolo, per termine di paragone, allo stanziamento iniziale 1967 di 12 miliardi di lire rivalutati anno per anno secondo la serie storica dei tassi di inflazione ISTAT. Si vede come il contributo statale (in termini reali) sia raddoppiato a fine anni ’70 e praticamente triplicato nei tre anni ’84-’86, il periodo nel quale, per garantire una regia unitaria ai contributi per lo spettacolo dal vivo, si istituisce il Fondo Unico per lo Spettacolo (FUS) con una aliquota iniziale destinata ai “13 importanti” pari al 43%, cresciuta poi al 47% ai giorni nostri.

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