L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

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È noto che il teatro d’opera non può supportarsi con il solo incasso al botteghino, giacché “proventi da vendite e prestazioni” copre una forchetta percentuale dei costi totali di produzione variabile tra il 34,5% dell’eccellenza Scala al fanalino di coda rappresentato da Cagliari e Palermo rispettivamente con il 7,0 e 7,6%. Buone performance hanno i teatri con i biglietti più cari d’Italia che, oltre alla Scala, sono il San Carlo e La Fenice; ma si può avere una buona prestazione da incasso senza per questo ricorrere a prezzi insostenibili per i biglietti: basta lavorare tanto e bene, ed è il caso del Regio di Torino al 25,3%. Ovviamente qui si potrà tirare fuori la specificità sociale ed economica dei territori, dei contesti, tutte le contestualizzazioni del caso: va bene, vediamo i numeri.

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Non siamo i soli a guardare così i numeri: con cadenza (in genere) biennale la Corte dei Conti vaglia i bilanci delle fondazioni e calcola tre indici di produttività (e questo è il primo dei tre), poi trasmette la relazione finale ai presidenti di Camera e Senato, nella speranza che qualcuno la legga.
Per quanto riguarda i costi, invece, occorre osservare che la contrazione dei finanziamenti pubblici negli ultimi 10 anni ha ridimensionato in una certa misura lo star-system che a fine anni ’90 aveva toccato e superato i confini dell’immoralità e dell’irrazionalità. Poteva capitare nel 2000 di imbattersi in un’Anna Bolena nella quale il soprano nel ruolo eponimo, per quanto modesto, fosse pagato meno della Seymour e addirittura circa la metà di Percy, nonostante questi ricorresse all’abbondante scorciatura della prima aria, all’asfaltatura dei relativi “do” e al taglio gavazzeniano dell’intera seconda aria; oppure, stesso anno e stesso teatro, compenso “onesto” ad un giovane direttore (ma già apprezzatissimo direttore ospite a Bologna, oggi entrato di diritto nello star-system) alle prese con Jenufa e compenso circa una volta e mezza per il direttore di Carmen (oggi di casa a Salerno). Lo star-system di oggi, anche grazie alle contrazioni del finanziamento pubblico, si è sgonfiato e sopravvive stabilmente in Italia solamente alla Scala (per fare un esempio, il costo del cast del Lohengrin ambrogino 2012 era di 188˙906 € a recita), mentre altrove si cerca di fare cultura puntando più su artisti dal potenziale artistico forse più interessante e certamente meno esosi: in tal senso il confronto tra i recenti Simon Boccanegra della Scala e de La Fenice è indicativo.

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Quello che invece ha caratteristiche di inelasticità nel bilancio di una fondazione è il costo del personale dipendente, ed è una quota estremamente significativa del totale. Si va dal 67% del Comunale di Bologna ai 62% di Roma e Cagliari tra i più incidenti; al Maggio Musicale con incidenza nel 2012 è del 56% (ma fino all’anno precedente si vagava anno per anno tra il 60 e il 70%!!!). Chi è riuscito negli anni recenti a mantenere il controllo sui costi dei dipendenti è certamente il Regio di Torino che si mantiene tra il 50 e il 55 % (la prestazione sul personale del Petruzzelli è un dato in assestamento, molto variabile negli anni, quindi non del tutto significativa). L’incidenza degli stipendi dei dipendenti sui costi totali è il terzo degli indicatori valutato dalla Corte dei Conti per qualificare la produttività dei Teatri; le tabelle seguenti fanno la classifica dal migliore al peggiore per l’indicatore di “ricavo” e per l’indicatore “costo personale”.

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