L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Chailly torna alla Scala con Weill e Brecht

in uno spettacolo di Irina Brook

Per la prima volta in una sola sera Die sieben Todsünden, Mahagonny Songspiel e The Songs of Happy End: critica sociale, contaminazione tra generi musicali e un allestimento innovativo con materiali riciclati. Una produzione che richiama una forte tradizione milanese tra Scala e Piccolo ma parla anche di un panorama attualissimo di disuguaglianze e sfruttamento

Nel 2021, nei mesi in cui la pandemia chiudeva i teatri, la Scala produsse un dittico di lavori di Kurt Weill destinato alle telecamere di Rai Cultura. Die sieben Todsünden e Mahagonny Songspiel andarono in scena nella sala vuota con la direzione di Riccardo Chailly e la regia di Irina Brook. Dal 14 al 30 maggio il dittico torna in scena incontrando finalmente il calore del pubblico e si arricchisce di un terzo elemento: i songs da Happy End. Si forma così un trittico inedito che riunisce tre momenti della breve ma esplosivacollaborazione tra Kurt Weill e Bertolt Brecht, iniziata proprio con Mahagonny Songspiel, che va in scena a Baden-Baden nel 1927 (una nuova versione espansa fino a diventare una vera e propria opera andrà in scena a Lipsia nel 1930) per proseguire con Happy End a Berlino nel 1929, mentre l’ultimo lavoro comune è Die sieben Todsünden che vede la luce nell’esilio a Parigi nel 1933. Irina Brook ha concepito uno spettacolo cheunisce idealmente le tre pagine in un unico progetto drammaturgico su un mondo portato allo stremo dallo sfruttamento e dall’avidità. Un mondo in cui è facile riconoscere un’attualità segnata dall’aumento vertiginoso delle disuguaglianze e dall’incombere della catastrofe ambientale, riflessa anche nella scelta di una scenografia interamente realizzata con materiali riciclati. Solo al termine un barlume di speranza, rappresentato dall’inserimento della canzone Youkali, dedicata a un’utopica isola dove ogni desiderio trova soddisfazione.

Il nutrito cast vede Alma Sadé nei panni di Anna I, Bessie e Mary, Lauren Michelle come Anna II, Jessie e Jane, Elliott Carlton Hines come Bruder I, Bobby e Sam Worlitzer, Andrew Harris come Mutter e Jimmy, Matthäus Schmidlechner come Vater, Charlie e Ein Mann, Michael Smallwood come Bruder II, Billy eHanibal Jackson, Natascha Petrinsky come Die Fliege, Wallis Giunta come Lilian Holiday e interprete di Youkali. Markus Werba torna alla Scala nella parte del gangster Bill Cracker, mentre Geoffrey Carey presta il suo volto iconico al ruolo dell’attore.

Coincidenza significativa che la prima, il 14 maggio, cada nell’anniversario della fondazione del Piccolo Teatro da parte di Paolo Grassi e Giorgio Strehler: la storia di Brecht al Piccolo è storia del Teatro italiano.Alla conferenza stampa scaligera erano presenti i due direttori del Piccolo Teatro Lanfranco Li Cauli e Claudio Longhi, che ha contribuito con un saggio al programma di sala.

Il debutto della musica di Kurt Weill su un palcoscenico scaligero avvenne peraltro in connessione con il Piccolo Teatro: nel 1962 andò in scena alla Piccola Scala un doppio spettacolo diretto da Bruno Maderna con l’Histoire du soldat di Stravinskij con la regia dello stesso Strehler e Lo Zar si fa fotografare di Weill con la regia del giovane Virginio Puecher, che al Piccolo aveva mosso i primi passi della sua carriera teatrale. Nel 1964, sempre alla Piccola, Strehler avrebbe firmato Ascesa e rovina della città di Mahagonny con la direzione di Nino Sonzogno. Tra le altre serate scaligere dedicate da Brecht-Weill sono da ricordare almeno il concerto di Gisela May con l’Orchestra dell’Opera di Berlino nel 1971, le serate Io, Bertolt Brecht curate da Strehler nel 1974, 1975 e 1976, la serata diretta da Luciano Berio in omaggio a Cathy Berberian nel 1993 e numerosi recital di canto, da Anne Sofie von Otter ad Angela Denoke fino al monografico di Kate Linsdey nel 2021.

Un’ora prima dell’inizio di ogni rappresentazione, presso il Ridotto dei Palchi “A. Toscanini”, per gli spettatori muniti di biglietto si terrà una conferenza introduttiva all’opera tenuta da Fabio Sartorelli.

Le opere

Die sieben Todsünden

Nell’ultima collaborazione tra Brecht e Weill ormai in esilio dalla Germania nazista la compenetrazione tra i generi raggiunge il suo apice: I sette peccati capitali del piccolo borghese (così il titolo completo) va in scena al Théâtre des Champs-Elysées il 7 giugno 1933 in forma di “Balletto satirico con canto” con Lotte Lenya come protagonista vocale e la coreografia di George Balanchine. Le protagoniste, Anna I e Anna II, in realtà due aspetti di un solo personaggio, cercano di ottenere abbastanza denaro per costruirsi una casa in Louisiana. Anna II, la danzatrice, rappresenta un impulso naturale alla moralità e alla compassione cui Anna I, razionale e calcolatrice, e la Famiglia rimproverano come peccati i comportamenti non finalizzati alla manipolazione del prossimo per accumulare denaro. Nel presente allestimento non è presente la componente coreografica.

Mahagonny Songspiel

Kurt Weill incontra per la prima volta Bertolt Brecht nel marzo 1927; nello stesso tempo riceve una commissione dal Festival di Musica da Camera di Baden-Baden per un’opera breve da eseguirsi l’estate stessa. È l’occasione per scrivere un lavoro preparatorio per un più vasto progetto, Ascesa e caduta della città di Mahagonny, che andrà in scena a Lipsia nel 1930. Il Songspiel, sorta di cantata scenica, integra itesti di Brecht con due Songs di Elisabeth Hauptmann e va in scena a Baden-Baden con la regia di Brecht e la voce di Lotte Lenya; l’argomento è la città di Mahagonny, in cui l’unica legge è la legge del denaro. Sorta nel deserto, Mahagonny attira ingenui e malintenzionati come un’autentica Netzstadt, una città – rete per catturare chi cerca facili guadagni, alimentata dalla pubblicità e dall’egoismo più avido. Ben presto vi regna una totale anarchia, divampa la violenza e l’unica colpa veramente punita è quella di non avere denaro. Ma la totale depravazione porta la città a perdere attrattiva, e molti la lasciano in cerca di altri orizzonti.

The Songs of Happy End

Dopo il successo della Dreigroschenoper, andata in scena allo Schiffbauerdamm di Berlino nel 1928, Brecht e Weill tornano a collaborare con Elisabeth Hauptmann (sotto lo pseudonimo di Dorothy Lane) per una nuova commedia musicale che va in scena sul medesimo palcoscenico l’anno successivo. Happy End, ambientata tra le gang di Chicago, torna a descrivere il mondo della malavita, ma anche il tentativo dell’Esercito della Salvezza di redimere i criminali e l’ambiente delle banche: nel suo libretto si trova il celebre interrogativo se sia più delittuoso svaligiare una banca o fondarne una. Weill scrisse più tardi: “Formalmente, strumentalmente e melodicamente è un progresso così evidente rispetto all’Opera da tre soldi che solo degli ignoranti senza speranza come i critici tedeschi potrebbero non accorgersene”. Se ne accorsero anni più tardi i teatri di Broadway, dove Happy End ebbe nuova vita. Nello spettacolo scaligero la visione nichilista che unisce i tre lavori sull’umana cupidigia è temperata dall’inserimento in chiusura di Youkali, un tango-habanera che fa parte delle musiche di scena scritte nel 1934 per la pièce Marie Galante di Jacques Deval. Le parole, aggiunte dopo la guerra da Roger Fernay, parlano di un’isola lontana in cui tutti i desideri si realizzano, un luogo utopico lontano dagli orrori dell’Europa. Un’isola inesistente ma che illumina con la luce della speranza.

Riccardo Chailly e Kurt Weill

Il Maestro Chailly ha raccontato in un’intervista a Elisabetta Fava per la Rivista del Teatro la nascita della sua passione per Kurt Weill nel 1971, quando alla Scala era venuta Gisela May, con l’Orchestra dellaDeutsche Staatsoper di Berlino (oggi Staatsoper Unter den Linden), a cantare una selezione di Songs. Chailly avrebbe poi diretto il Concerto per violino e fiati, il Berliner Requiem, e diverse volte anche la suite dall’Opera da tre soldi (la cosiddetta Kleine Dreigroschenopermusik) per soli fiati. “In Weill” - spiega Chailly – “sento il tipo di suono, di ritmo delle Kammermusiken di Hindemith, protagonista con lui e con Křenek, della Berlino musicale anni Venti; una grande ragione del suo fascino sta proprio nella capacità di legare la modernità alla sonorità dell’ensemble; c’è già nel 1934 in Marie Galante e sarà poi il presupposto della sua fortuna a Broadway. La musica da ballo praticata nei cabaret berlinesi è un elemento comune e fondativo di queste partiture: in Happy End troviamo un tango lunghissimo, due blues, due valzer, due foxtrot. Però più ancora dei riferimenti ai singoli ritmi di danza secondo me è fondamentale lo swing; il canto è sempre raddoppiato dall’ensemble, ma la sua linea non deve essere ‘metrica’ come in una partitura di Hindemith: deve girare intorno all’orchestra con duttilità”.

Irina Brook e la creazione del Trittico

Lo spettacolo di Irina Brook, nato nelle ristrettezze della pandemia, ha fatto della povertà produttiva una cifra stilistica e un’affermazione di idealità: per la prima volta alla Scala si produceva uno spettacolo realizzato unicamente con materiali riciclati, puntando sull’espressività del canto, della recitazione e dei corpi di una compagnia amalgamata da un lavoro d’insieme lontanissimo dalle consuetudini del teatro d’opera. Un fare teatro diverso per un programma speciale, che a Milano riecheggia esperienze musicali e sceniche di lunga tradizione. L’unione dei tre titoli con l’aggiunta di Happy End ha posto una sfida ulteriore: fondere le identità narrative e simboliche delle pagine di Brecht/Weill in un percorso drammaturgico unitario utilizzando unicamente le parti musicali. A Liana Püschel, che l’ha intervistata per la Rivista del Teatro, la regista ha spiegato: “Il Trittico parla di tutti i problemi di oggi: noi non facciamo abbastanza per gli altri, pensiamo solo a noi stessi, alle scadenze quotidiane, dimenticandoci dei disastri del mondo. Mi riempie di energie l’opportunità di parlare di temi così attuali ma con una certa distanza e soprattutto con una musica piena di ritmi di danza, nello stile della commedia musicale; è veramente piena di gioia. C’è una contrapposizione unica e affascinante tra lo stile della musica e quello delle parole. Se facessi uno spettacolo in cui un gruppo di ambientalisti grida le proprie convinzioni in scena, non verrebbe nessuno; ma facendo questo spettacolo in cui le idee sono sublimate, forse qualche messaggio passa, almeno spero!”.


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