L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Teresa Iervolino, Giuliana Gianfaldoni e Loriana Castellano nella Cenerentola al Regio di Torino

Della fortuna instabile

 di Roberta Pedrotti

La bacchetta di Speranza Scappucci e la regia di Alessandro Talevi sono le colonne portanti di una produzione della Cenerentola rossiniana di raro fascino, spassosa ma non priva di ambiguità e spunti di riflessione. Un cast di agguerriti rossiniani emersi ed emergenti dà il meglio di sé.

Guarda l'intervista video a Speranza Scappucci

TORINO 19 marzo 2016 - Con ragionevole approssimazione, se non con certezza, si può dire che a quella di Cenerentola possa spettare il titolo di più antica e fortunata fra le fiabe, capace di attraversare le epoche e culture mantenendo intatta la sua validità universale, svelando, magari, sfumature ora evidenti ora sottintese. Si rinnova, com'è natura del racconto orale e com'è natura dell'opera, del teatro musicale che resta se stesso e rinasce ormai da secoli in voci e interpretazioni differenti.

Da centonovantanove anni circola felicemente per il mondo La Cenerentola operistica di Rossini e Ferretti, e ha ancora molto da dire e da rivelare, come ci dimostra la splendida coppia che il Teatro Regio di Torino ha chiamato a guidarla dalla cenere al trono.

Direzione e regia sono, infatti, affidate ad artisti in meritata ascesa, l'una – Speranza Scappucci – già prossima a un attesissimo debutto pesarese fra pochi mesi, l'altro – Alessandro Talevi – un nome che negli uffici di via Rossini converrà appuntarsi fra le priorità per le prossime edizioni del Festival. Lo spettacolo si muove, così, sui solidi binari di un meccanismo teatrale perfettamente oliato, spassoso ma non banale, in simbiosi impeccabile con una lettura musicale mobile, sensibile, saldissima; inevitabilmente il cast, già sulla carta ricco di buoni auspici, può dare il meglio di sé in tutta serenità.

Quella della Scappucci è, soprattutto per l'opera italiana, una bacchetta da sogno: personale ma non stravagante, sensibile al canto, affettuosa con le voci senza eccedere in indulgenze, sempre al servizio della musica con una cura intelligente e finissima delle dinamiche interne, dei colori, dei meccanismi segreti delle architetture rossiniane. Basti ascoltare l'articolazione dei concertati, pezzi di teatro dal melos cangiante, sempre vivo e significativo, plasmato ma non addomesticato nella sua audacia straniante. Non capita spesso di ascoltare un Rossini così affascinante, chiaro ed enigmatico allo stesso tempo, poetico e fisico, netto e sfumato.

Talevi, a sua volta, dimostra cosa significhi far teatro, e far teatro musicale oggi, senza sovrapporre l'azione alla partitura, mai offuscata dalla miriade di particolari che pure compongono uno spettacolo pensato nei dettagli. Non c'è mai la sensazione di sovraccarico, di eccesso, perché tutto è ben calibrato affinché l'azione prosegua fluida fra tensioni e distensioni musicalissime, lasciando in primo piano ciò che in primo piano deve stare senza isolarlo, senza trascurare un contesto sempre vivo e significativo. Così la modernissima chiave di lettura impostata da Talevi rivela anche due facce della medaglia: siamo a Roma, all'incirca negli anni Cinquanta, la televisione sta entrando nelle case e per le tre ragazze di periferia povere ma belle Cinecittà è il grande sogno. Clorinda e Tisbe (non brutte, anzi!, ma superbe, prive di talento e scarse d'intelligenza) partecipano a provini su provini, ma rimedieranno solo due comparsate. Il regista Alidoro ha, infatti, messo gli occhi su quell'altra giovane, dimessa e malvestita, che le accompagnava e farà di lei la protagonista, accanto al giovane divo suo pupillo. La storia di Angelina è, quindi, il sogno di un'affermazione personale e professionale, è il trionfo del talento indipendentemente dalla realizzazione sentimentale che pure arriva con il tenero affetto di Ramiro, tant'è vero che il finale è la premiazione della nuova diva con discorso di rito fra lacrime e riconciliazioni familiari (l'invito “Sposa” del principe suona, dunque, come una dichiarazione e una proposta, più che come suggello delle avvenute nozze). C'è, però, un retrogusto amaro, ché non si può evitare di pensare che “della fortuna instabile la revolubil ruota” facilmente non resterà immota, che questo successo quanto è stato rapido potrà essere effimero, che Alidoro abbia orchestrato il lancio dell'attrice sconosciuta e l'amore con il divo coprotagonista, circondato da paparazzi, per attualissime ragioni commerciali. Sulla fiaba la sensibilità contemporanea allunga delle ombre, di cui, dopotutto, non è mai stata priva la più malinconica delle opere buffe rossiniane.

L'iconografia scelta da Talevi con la scenografa e costumista Madeleine Boyd e le luci disegnate da Matt Haskins ora riprese da Andrea Anfossi non sguazza nella volgarità della tv attuale, ma esplora i contrasti della fabbrica dei sogni romana con rimandi a Bellissima, a Vacanze romane e allo Sceicco bianco, anticipando (la produzione nacque a Malmö, in Svezia, nel 2009) per molti versi anche la più recente fatica dei Coen, Ave Cesare. Il risultato è tutto da gustare, anche nei fluidissimi cambi scena a vista, l'ultimo dei quali regala qualche istante vertiginoso con la prospettiva invero suggestiva, perché non abusata, di tutta la profondità del retropalco.

Da gustare, abbiamo detto, è inevitabilmente anche la prova della compagnia di canto, coccolata da concertazione e regia che cuciono addosso a ciascuno le condizioni migliori per emergere.

La protagonista è Teresa Iervolino, che debutta nel ruolo con la stessa rocambolesca rapidità di questa Angelina a Cinecittà e anticipa un esordio previsto per aprile a Palermo con questa sola recita in alternanza con le colleghe Chiara Amarù e Daniela Pini. La classe, vocale e scenica, del giovane contralto campano si conferma ancora una volta, con la sua musicalità elegantissima, la nobiltà e la sensibilità del fraseggio, il timbro piacevolmente seppiato, con ombreggiature femminili prive d'artifizi e cupe vischiosità. L'impressione netta è di aver assistito alla prima di una lunga serie di fortunate Cenerentole in continua ascesa.

Assortita al meglio, in uno spettacolo in cui non si trovano parti di fianco, la coppia di sorellastre, un duo comico credibilissimo di aspiranti soubrette colte da attacchi di fame nervosa: Giuliana Gianfaldoni, Clorinda, e Loriana Castellano, Tisbe, fanno dei loro personaggi due gioiellini d'ironia, spassose sempre nella giusta misura. “Tales patris, talem filias” è proprio il caso di dire, essendo Don Magnifico una figura tragicomica d'altezzoso poveraccio borgataro che sembra guardare un po' al mondo di Alberto Sordi un po' a quello di Pasolini: Carlo Lepore ha il pregio di renderlo con il gusto dell'esperto belcantista, con vocalità pulita, sempre a fuoco e comicità più sottile che plateale. I due buffi risultano così perfettamente bilanciati nella miglior tradizione della commedia all'italiana.

Nel mondo del cinema osservato e desiderato dalle catapecchie dei dintorni – quella di Don Magnifico e quella di una vecchina cui Angelina usa offrire un buon caffè – appartiene, infatti, Dandini, ma nella fabbrica dei sogni lui è un semplice operaio, bassa manovalanza che con il principe non ha nessun rapporto finché Alidoro non lo nota nel gruppo che annuncia alle “figlie amabili di Don Magnifico” l'arrivo di Don Ramiro e decide di scritturarlo come controfigura temporanea del protagonista. Improvvisato divo "grande essendo, grandi le avrà da sparar", ma la sua gloria, tutta strumentale ai piani del regista, non durerà che un battito di ciglia, nel quale però Talevi dà modo a Paolo Bordogna – vocalmente aiutato dalla tessitura più acuta che in altri ruoli del suo repertorio – di far brillare al meglio il suo talento attoriale.

I “pesci grossi” di Cinecittà sono il divo e il regista demiurgo. Al primo un Antonino Siragusa in gran forma presta tutta la sua esperienza rossiniana, schioccando acuti sicurissimi, fra delicato trasporto amoroso, spirito giocoso e il pizzico di arroganza di chi è abituato a essere al centro dell'attenzione, obbedendo solo al proprio mentore artistico. Questi è un eccellente Roberto Tagliavini, che incanta per la morbidezza, la franchezza e l'eleganza dell'emissione nella grande, magnifica aria “Là del ciel”, mantenendo sempre a fuoco l'enigmatica ambiguità del suo personaggio, benevolo e calcolatore.

Il fatto che la locandina non citi mimi e attori (che non mancano ma son meno di quanti ci si aspetterebbe) rende ancor più lodevole la prova del coro, compatto nel canto e parcellizzato in una moltitudine di personaggi ben caratterizzati nel sottobosco della fabbrica dei sogni.

Successo al calor bianco, pomeriggio da ricordare come esempio di una produzione d'opera ideale, retta di comune accordo dall'intelligenza di direzione e regia, interpretata da artisti stimolati e messi a loro agio, che comunichino il piacere e il divertimento di far vivere quella musica e quel testo sul palcoscenico.

Un difetto? Non lo troveremo tanto sul palcoscenico, se non a volerci intristire a misurare ogni nota con il calibro di Beckmesser, quanto nel programma di sala. Questa volta, nella bella produzione editoriale del Regio, è scappata qualche svista di troppo: Dandini anticiperebbe “per alcuni aspetti il personaggio del poeta nel Turco in Italia” (A. Bosco, pag. 11, ma Il turco precede di tre anni La Cenerentola), Don Magnifico sarebbe “nominato barone per un sol giorno”(P. Gallarati, pag. 17), nel 1817 Jacopo Ferretti avrebbe “già scritto libretti per Donizetti, Mercadante, Pacini, Luigi Ricci” (P. Gallarati, pag. 18, la collaborazione con il bergamasco iniziò invece nel 1824, con il pugliese nel '20, con il siciliano nel '21 e con il napoletano nel '29).

Le foto per le quali non sia indicato il credito Ramella&Giannese sono state scattate da Marta Bini il 19 marzo con Teresa Iervolino nel ruolo di Angelina.


 

 

 
 
 

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