L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Verdi nella battaglia

 di Alberto Ponti

Spesso citata ma poco eseguita in teatro, la quarta opera di Verdi ritorna al Regio dopo quasi un secolo con l’eccellente direzione di Michele Mariotti.

Leggi anche le recensione del cast alternativo: Torino, I lombardi alla prima crociata, 19/04/2018

TORINO, 20 aprile 2018 - In un’opera tra le più militaresche dell’Ottocento, con il riferimento alla fatidica prima crociata a comparire in medias res fin dal titolo, è inevitabile che alla fine si incrocino le spade. L’idea di risolvere il paio di minuti riservati allo scontro tra cristiani e musulmani nel penultimo quadro, anziché con una banale finta scazzottata, mediante la proiezione di un filmato su un momentaneo schermo calato all’altezza del boccascena è originale e non è dispiaciuta al pubblico. Maggiore perplessità hanno suscitato le immagini: nientemeno che la celeberrima Battaglia sul ghiaccio dall’Alexander Nevskij di Sergej Ejzenstein. Capolavoro di estrema suggestione ma, anche a voler sorvolare sull’ambientazione nordica anziché mediterranea, inscindibile dalla musica che Prokof’ev compose appositamente per la pellicola. Senza dare di giudizi di valore, va detto che proiettare lo spezzone della pellicola sopra le sonorità roboanti del giovane Verdi sarebbe un po’ come far danzare le astronavi di Kubrick al tempo del Can-can di Offenbach. Est modus in rebus, e il regista Stefano Mazzonis di Pralafera, direttore dell’Opéra Royal de Wallonie di Liegi, partner nella coproduzione dell’allestimento, ad eccezione di questa scelta abbastanza inspiegabile ha per il resto dello spettacolo dimostrato un innato senso dell’equilibrio drammatico, all’interno di una cornice di grande semplicità ma non meno evocativa. Tre grandi colonne sui lati destro e sinistro, che si inclinano quando l’azione si sposta nella caverna dapprima rifugio dell’eremita e poi luogo del battesimo di Oronte, e un fondale di essenziale compostezza, all’occorrenza coperto dalla facciata stilizzata della chiesa di Sant’Ambrogio e dalle mura dei palazzi, su cui infine si staglia il profilo di Gerusalemme, sono quel che viene messo sul tappeto. Il rigore dell’apparato scenico, curato da Jean-Guy Lecat e valorizzato dalle luci mai invadenti di Franco Marri, è un indubbio atout per le grandi masse corali, autentico motore della vicenda accanto ai protagonisti, chiamate a occupare per tutti i quattro atti il palcoscenico con un gusto sovente spettacolare, assecondato dai tradizionalissimi costumi di Fernand Ruiz, che colloca il lavoro verdiano, più che il precedente Nabucco di cui viene a larghi tratti ricalcata la formula, quasi nella scia di un grand opéra all’italiana, abbastanza agevole da declinarsi secondo i canoni originari nel successivo rifacimento parigino Jérusalem.

Un cast di buon livello rivela i pregi di un’opera non così popolare se si escludono la cavatina di Oronte ‘La mia letizia infondere’ e il coro ‘O signore, dal tetto natio’, con inevitabili manchevolezze e acerbità di scrittura (nel secondo atto quella indicata come ‘Gran scena e Marcia de’ Crociati’ fa sorridere se paragonata alla quasi coeva ‘Große Marsch’ del Tannhäuser), largamente compensate dal rapinoso incedere teatrale, condito dalle fulminanti intuizioni del genio che verrà. Se certe chiusure di concertati, con veloci cadenze di pochi accordi a tagliar con l’accetta bellissime espansioni melodiche, lasciano quasi sgomenti, almeno nel terzo e quarto atto la musica di Verdi si innalza al livello di un’artista definito da Fedele D’Amico ‘di statura pressoché scespiriana’.

Gabriele Mangione, timbro tenorile agguerrito ma ricco di sfumature, ricopre con convinzione il ruolo di Arvino, affiancato, nella parte del fratello Pagano, dal basso-baritono Marko Mimica, autore di una prestazione sostanziosa, talvolta penalizzata da una declamazione poco mossa come nel cantabile di esordio ‘Sciagurata, tu hai creduto’ ma sicuro ed efficace nel registro acuto già dalla successiva cabaletta ‘O speranza di vendetta’. Completa il trio dei protagonisti maschili l’Oronte di Giuseppe Gipali, tenore dall’emissione pulita, di impronta più leggera che drammatica con una sporadica debolezza di intonazione nei primi due atti che tuttavia si riscatta appieno nel duetto con Giselda, pagina tra le migliori dei Lombardi, affrontato con la crescente intensità richiesta dal compositore.

Il soprano Maria Billeri, da par suo, è una Giselda gradevole, eccessivamente uniforme sul piano dinamico ma applaudita a scena aperta nella impervia preghiera 'Salve Maria!', convincente in finale di secondo atto nell'accorata riflessione sull'inutilità della guerra di religione e in crescendo nel finale con un'ottima esecuzione della grande aria 'Qual prodigio!', abile nel declamato e nel dispiegare un canto di nobile accento e meditata espressione.

A completare la compagnia, i validi soprani Lavinia Bini e Alexandra Zabala sono rispettivamente Viclinda e Sofia mentre, tra le figure maschili, annoveriamo il tenore Joshua Sanders, in veste di priore della città di Milano, e i bassi Antonio Di Matteo e Vladimir Jurlin a interpretare Pirro e Acciano, tiranno d'Antiochia.

A giganteggiare su tutto sono le superbe prove del Coro del Teatro Regio, guidato da Andrea Secchi, eccezionale per coesione tra le voci e capacità di tenuta in una partitura assai impegnativa, e l'orchestra diretta da Michele Mariotti. Dal maestro pesarese traspaiono una convinzione e un amore per questo repertorio del tutto rari nell'odierno panorama non solo italiano. Il suo gesto palesa una profonda conoscenza del pezzo e un'infinita cura dei particolari, è attento alle esigenze dei cantanti, andando a riprenderli con scioltezza se necessario, non sommerge mai le voci soliste con il flusso strumentale.

Anche nei passaggi apparentemente più deboli, banco di lavoro sui cui Verdi affina, nella battaglia senza esclusione di colpi dei suoi 'anni di galera', un formidabile mestiere in attesa dei futuri traguardi, Mariotti sa scovare e mettere nella giusta luce raffinatezze da altri ignorate: disegni serpeggianti degli archi, ondulanti arpeggi dei legni. Il terzo quadro del secondo atto, quando Giselda viene derisa dalle schiave nell'harem, già rimanda, tra i risvolti della sua strumentazione bandistica, nell'abbagliante sequenza dei suoi colori, alle fantasmagorie di Macbeth.

Nei due atti conclusivi, dove la scrittura si mantiene su un altissimo livello di ispirazione, le doti del direttore sono ulteriormente esaltate da un'orchestra a cui ha saputo imprimere la sua visione personale, non solo nell'assolo di violino (l'applauditissima prima parte Stefano Vagnarelli) che precede la conversione di Oronte, ma anche nello scattare improvviso dei ritmi, nella precisione degli attacchi degli ottoni, nelle pennellate liquide dell'arpa che vanno oltre il semplice accompagnamento.

I lombardi alla prima crociata del Teatro Regio vanno così oltre il successo personale degli interpreti, oggetto di ovazioni e lanci di fiori al termine, ma rispecchiano la tradizione italiana nel senso più alto del termine valorizzando un titolo mancante a Torino da troppi anni (nel massimo teatro bisogna indietreggiare al 1926 per trovare l'ultima rappresentazione!): tra i rivolgimenti del secolo XIX, nell'abbraccio tra passato e futuro il nume verdiano è già lì, sullo sfondo dell'eterna lotta tra religioni con cui, a passo di marcia, il giovane bussetano conquistava la Scala, l'Italia, il mondo.

 

 

 
 
 

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