L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Plebe, patrizi, popolo

di Roberta Pedrotti

Michele Mariotti dirige Simon Boccanegra per il festival Verdi con i vecchi compagni di viaggio del Comunale di Bologna e un cast a tratti sfarzoso per mezzi vocali, acumi d'interprete, sorprese, conferme e speranze. Soprattutto, però, si torna a pensare a un'opera emblematica nel tempo presente, data con le restrizioni di un'epoca di emergenze.

PARMA, 09 ottobre 2021 - Il popolar favore si compra e si vende fra pochi, abili manipolatori; le folle cambiano parere in un attimo, se si indirizza loro la parola giusta a intercettarne l'umore; il ruggito della massa visto da vicino è la somma di tante piccole fragilità. Verdi penò non poco per sistemare quel suo “tavolino zoppo”, ma fra Piave e Boito, fra prima stesura e radicale revisione, Simon Boccanegra resta uno di quei capolavori che ogni volta, da qualunque prospettiva li si guardi, ci parlano di noi, in ogni tempo e in ogni luogo.

Oggi Simon Boccanegra si dà in forma di concerto. L'opera è teatro, ma là dove incombe un'emergenza sanitaria, programmare due titoli allestiti con tutti i crismi sarebbe stato troppo rischioso, troppo precario. Non si rinuncia a proporre almeno la musica, ma anche qui, si sono dovuti prevedere i protocolli di sicurezza, i distanziamenti dell'orchestra, il coro che da subito si deve pensare isolato nella balconata compresa nella scenografia di Un ballo in maschera. Simon Boccanegra, come ogni opera e ogni concerto da diciotto mesi a questa parte, fa i conti con la situazione contingente e continua a essere, hic et nunc. E, in questo caso soprattutto, a raccontare le dinamiche della politica, della propaganda, della manipolazione, degli interessi di parte dietro i movimenti delle masse, vale a dire proprio quello che ora si oppone alle misure per risolvere l'emergenza sanitaria, si oppone alla scienza, alla ragione, alla solidarietà, impone la violenza. Ancora una volta, andare all'opera non è un passatempo, anzi, sarebbe un farmaco sociale.

Con queste riflessioni che si agitano nella mente, ancor di più si apprezza lo sforzo fisico di Michele Mariotti per mantenere la coesione della partitura delicatissima con le disposizioni e le distanze necessarie in questo momento. Non si tratta solo andare insieme, dal proscenio ai piani alti e lontani, ma anche di calibrare i rapporti, le sonorità, di constatare, per esempio, che l'attacco della Scena del Gran Consiglio non può far tuonare gli ottoni dal fondo come se fossero stretti ai colleghi in buca e quindi regolarsi di conseguenza. Il concertatore ha, però, fidati compagni di viaggio nei complessi del Teatro Comunale di Bologna (per la prima volta, in un'opera ritroviamo la nuova maestra del coro, Gea Garatti Ansini) di cui è stato direttore musicale e con i quali, quattordici anni fa, aveva affrontato per la prima volta proprio questa monumentale partitura. Da allora, la sua lettura si è evoluta e si fa tutt'uno con le esigenze pragmatiche del momento, cerca una sintesi fra l'anima sanguigna del 1857 e quella più riflessiva del 1881, sbalzate invece nei loro contrasti al tempo del debutto. Se non conviene puntare ad estremi dinamici, se il suono si può assottigliare nel colore più che nel volume, talora si punta a dilatare i tempi nei momenti intimi o, viceversa, a mantenere una tensione più incalzante perché tutto il quadro del Gran Consiglio non ceda alla retorica, perché le perorazioni del Doge siano accorate e sincere, non diventino comizi, il dramma resti vivo. La maggiore sfida resta, però, amalgamare un cast composito, dai valori anche altissimi ma eterogenei. C'è Igor Golovatenko nei panni dell'eponimo corsaro incoronato e fa subito sensazione per la presenza imponente e autorevole, per una voce ricchissima di armonici, nobile, luminosa, che ricorda nel colore i baritoni antichi, timbrati senza bisogno di scurire il suono. La pronuncia è buona e fa intendere la cura dell'interprete, anche se qualche risciacquata di panni in Arno potrebbe aiutarlo ad approfondire la sua interpretazione e mettere a frutto qualità già affinate ad altissimi livelli. Dall'altro lato c'è Michele Pertusi, che invece proprio di scavo estremo, intimo del testo e di ogni piega della linea di canto è maestro sommo. Altero e reso ancor più altero dal suo dolore, trova il contrasto e quindi l'alchimia giusta per il massimo effetto poetico e drammatico dei due duetti con Simone. L'altro cardine politico del dramma, Paolo Albiani, è affidato a Sergio Vitale, che si mette totalmente al servizio di una lettura completa e personale del personaggio, al punto che se ci si fermasse al Prologo si potrebbe rimanere perplessi di fronte a qualche alleggerimento dell'emissione, mentre nell'evoluzione degli atti successivi è chiaro come sottolinei il passaggio dalla fredda, acerba, ambizione giovanile alla matura, distaccata gestione del potere.

La coppia di innamorati affianca una stella internazionale a un giovane debuttante nella parte e nel teatro. Angela Meade è dotata, si sa, di una vocalità privilegiata non solo per smalto, proiezione, ampiezza, ma anche per la facilità naturalissima con cui modula le dinamiche ad ogni altezza, lega, percorre la tessitura dall'acuto al grave senza batter ciglio. Un po' più di cura per la dizione e un po' più di coraggio e fantasia nell'espressione sarebbero la ciliegina sulla torta, o un doveroso coronamento di mezzi tanto doviziosi da non meritare di essere ostensi per sé stessi. Riccardo Della Sciucca, che per statura compensa bene il confronto anche fisico con la collega, è dotato di una vocalità franca e generosa, ben controllata e chiara nell'articolazione. Quel che ancora può mancare sembra più che altro legato alla prudenza e all'emozione inevitabili quando a meno di trent'anni si canta per la prima volta Gabriele Adorno e al Regio di Parma. La giusta esperienza ci potrà offrire grandi soddisfazioni in futuro.

Le parti di fianco sono ben sostenute da Andrea Pellegrini (Pietro), Federico Veltri (Capitano dei balestrieri) e Alessia Panza (Ancella di Amelia).

Alla fine, nel dolore, si respira quasi più pace che tragedia. La musica sfuma nel silenzio. La bacchetta infine si abbassa ed è un caloroso successo. Ma, ed è forse la cosa più importante, soprattutto si esce dal Regio pensando. Pensando al potere, al popolar favore, alle grida delle folle utili a questo o quell'altro che le fomentano manipolando l'informazione nell'ombra per armarle a proprio vantaggio.


 

 

 
 
 

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