L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il mito e il giovane maestro

di Roberta Pedrotti

Ruggero Leoncavallo
Pagliacci

Nedda Mietta Sighele
Canio Richard Tucker
Tonio Kari Nurmela
Peppe Ermanno Lorenzi
Silvio Walter Alberti
Primo contadino Ottavio Taddei
Secondo contadino Mario Frosini

Riccardo Muti
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino

Maestro del Coro Adolfo Fanfani

Firenze, Teatro Comunale, 2 gennaio 1971

OF 025 1 CD MONO ADD

Richard Tucker aveva cinquantasette anni e sarebbe morto esattamente quattro anni dopo, nel gennaio del 1975. Inutile negare che non fosse al massimo della forma, che l'espressione risulti talora datata o sopra le righe nell'indulgere in qualche portamento e sottolineatura espressiva. D'altro canto, però, il carisma del grande tenore a fine carriera passa palpabile anche nella registrazione: naturale e impeccabile nella fonetica e nel senso della lingua italiana, possiede una forza, uno smalto, una comunicativa innegabili. Forse certi modi del suo Canio appartenevano ancora al passato, ma la statura dell'artista va oltre, ci fa dimenticare qualche risata o qualche grevità per ammirare, al di là dei segni del tempo e del gusto, la statura di uno dei più grandi tenori del XX secolo.

Con Tucker troviamo un solido cast di solida impostazione tradizionale: Mietta Sighele è un perfetto soprano di scuola verista, è sicura in tutta la tessitura, è schietta nel modo di porgere, fiera e popolaresca. Lo si nota, per esempio, quando apostrofa il marito "Pagliaccio" con con l'attonita esitazione che sentiamo spesso, ma con scherno sprezzante, quasi fra i denti. Kari Nurmela, Tonio/Prologo (cui il divo Tucker scippa la battuta finale declamata con tutta l'estroversione verista di cui è capace), Walter Alberti, Silvio, ed Ermanno Lorenzi, Peppe dalla voce più corposa del solito, completano il cast con efficacia, timbrati, vigorosi ma non volgari. Sembra di sentire le voci dei nostalgici notare i pregi degli artisti meno noti delle passate generazioni e sospirare "avercene oggi" o "ieri erano in seconda linea, adesso farebbero le scarpe ai divi". Soliti luoghi comuni da laudatio temporis actis, quando invece si constata che di ogni epoca, più s'allontana, più si ricordano i soli vertici, ma, da vicino, ogni tempo ha le sue stelle, le sue meteore, le sue promesse mantenute e deluse, i suoi affidabili professionisti senza i crismi dell'eccezionalità, e anche i suoi interpreti mediocri, scarsi, sopravvalutati o sottovalutati.

Certo, di fronte a questo spaccato vocale di un'epoca, alla presenza accentratrice del divo al crepuscolo ma pur sempre divo Tucker, il giovane Riccardo Muti appare quasi una presenza straniante. Si avverte la sua impronta nel lavoro con i complessi del Maggio, si avverte l'idea di un verismo sanguigno ma non volgare, oltre le esternazioni drammatiche di superficie, ma anche l'inevitabile rispetto della personalità e delle necessità di Tucker. C'è in nuce l'approccio futuro di Muti a Leoncavallo, ma sono ancora lontani quei Pagliacci del 1997 a Ravenna, con un crepuscolare e meno svettante Domingo, un cupo e dignitoso Pons, una Svetla Vassileva raggiante di gioventù ad amoreggiare con uno splendido Pietro Spagnoli strappato a Rossini. Quelli saranno i Pagliacci "di Muti", meditati e plasmati dal maestro; questi sono i Pagliacci "di Tucker con Muti" del giovane talentuoso che incontra il mito del passato. Da questi incontri, fra ciò che scorre e ciò che resta, nasce la storia.


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