L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Luci e falene

 di Roberta Pedrotti

R. Wagner

Lohengrin

Beczala, Harteros, Meier, Konieczny, Zeppenfield

direttore Christian Thielemann

regia Yuval Sharon

scene e costumi Neo Rauch & Rosa Loy

orchestra e coro del Festival di Bayreuth

Registrato a Bayreuth nell'estate 2018

2 DVD Deutsche Grammophon 00440 073 5616, 2019

Difficile scindere arte e politica a Bayreuth, dove la storia pesa come un macigno. Così, si dice, ma non si conferma ufficialmente, che le posizioni contro l'accoglienza dei migranti in Germania da parte di Alvis Hermanis abbiano influito nella sua sparizione dal progetto del nuovo Lohengrin che ha debuttato nel 2018 e appare ora in Dvd. Dato che, tuttavia, il rapporto fra il regista lettone e Wagner non sembra dei più fruttuosi e il suo Parsifal alla Staatsoper di Vienna continua a mietere mugugni [leggi le recensioni: Vienna, Parsifal, 02-06/04/2017 e Vienna, Parsifal, 18/04/2019], forse la rottura con Bayreuth non sarà stata così infausta, né unicamente ideologica. Di certo, Katharina Wagner non sembra amare i compromessi e procede su una strada di rinnovamento artistico – anche a costo di qualche rischio, inevitabile per progredire – e di presa di distanza dai fantasmi del passato. Fuori, senza troppi rimpianti, Hermanis, arriva allora il giovane (classe 1979) Yuval Sharon, primo regista statunitense al Festival, secondo, dopo Barrie Kosky, di origini ebraiche, ben noto negli States per tendenze d'avanguardia, e molto attivo anche in ambito operistico. Purtroppo, però, risulta molto difficile valutare il suo lavoro su Lohengrin, che si innesta in progress in un allestimento già progettato visivamente dalla coppia di artisti tedeschi Neo Rauch & Rosa Loy. Scene e costumi già fatti (e, sia detto per inciso, dopo il Ratten-Lohengrin popolato da roditori giganti, le alucce da insetti che vediamo ora ci fanno pensare che il Brabante debba sempre essere abitato da animali più o meno antropomorfi...), a Sharon non sembra sia rimasta altra scelta che costruire la propria idea e adattarla all'ambientazione, anche a costo di qualche rinuncia o forzatura. Le sue note di regia sono davvero ben scritte, e incuriosisce la sua riflessione sull'opera come una possibile metafora del contrasto ottocentesco fra l'infatuazione romantica per un medioevo fiabesco, preraffaellita e la pulsione rivoluzionaria al progresso, con l'eroe eponimo che fallisce nella sua missione di innovatore provvidenziale perché non risolve il rapporto con la donna, che vorrebbe costretta a subire le sue imposizioni, a concedergli fiducia incondizionata. Possiamo immaginare che molto rimanga sulla carta nel momento di prender vita nel mondo azzurrino di Rauch&Loy, fra uomini-insetto , elementi elettrici, sagome vegetali di cartone, bei fondali astratti per i preludi. Alla fine, la regia lavora assai bene sull'interpretazione dei singoli, ma nel disegno complessivo si limita a organizzare bene l'azione, con qualche guizzo in più nel duetto fra Lohengrin ed Elsa del terzo atto, forse il momento in cui più d'ogni altro emerge il rapporto fra sogno, sopraffazione e libertà delineato da Sharon, regalando attimi originali e intensi. Per il resto è, più che altro, un Lohengrin da ascoltare, sul cui sviluppo teatrale pesano troppo i travagli della gestazione.

Per fortuna, è un gran bell'ascoltare. Christian Thielemann gioca sul sicuro: il cast maschile è quasi esattamente quello che aveva diretto a Dresda nel 2016 [leggi la recensione], con uno splendido Piotr Beczala nel ruolo eponimo. Dal debutto crescono la sicurezza e la cura del fraseggio (superbo il suo cogliere con sottigliezza il lato nero, prevaricatore e sconfitto di questo Lohengrin), resta intatta la lucentezza di un canto nobile e lirico, morbidissimo. Tomasz Konieczny è un Telramund fiero ma anche sfaccettato, che non si arrende a divenire una marionetta nelle mani di Ortrud – anzi, anche qui traspare il conflitto d'emancipazione profilato dal regista. Georg Zeppenfeld è autorevole e ambiguo nei panni di Heinrich der Vogler, così come Egils Silins, unica novità maschile rispetto a Dresda, s'impone a dovere come Araldo.

Se in Sassonia Elsa era Anna Netrebko, a Bayreuth abbiamo Anja Harteros e restiamo sul tetto del mondo. Lo smalto aristocratico nel suo canto si vena di malinconia, ma anche di appassionata, indomita determinazione, maturo desiderio di riscatto pù che amore fiabesco; “Euch lüften, die mein Klagen” è un sognante capolavoro di cesello, le impennate acute nel duetto del talamo nuziale penetranti e perentorie. Con l'Ortrud di Waltraud Meier (a Dresda era Evelyn Herlitzius: altro passaggio di testimone fra fuoriclasse) si instaura un rapporto ambiguo, che sfiora la complicità e permette di plasmare anche un'antagonista più umana e complessa dell'usato. Inutile dire che Meier come interprete sfoderi una classe, un carisma, un'incisività incrollabili; giova, forse, porre l'accento su una resa vocale ancora notevole, con acuti sempre ben centrati, dopo tanta gloriosa carriera.

Thielemann sembra aver asciugato un po' la sua lettura rispetto a quella, più turgida, di Dresda. Resta la sua confidenza con Wagner, la cura del suono, la compattezza del fraseggio, il trasporto romantico gestito con mano sicura. Complessi eccellenti come quelli radunati annualmente per il festival fanno il resto.


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