L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Una Cenerentola sans rire

 di Stefano Ceccarelli

Sono già passati (quasi) duecento anni dalla première romana de La Cenerentola di Gioachino Rossini: eppure la sua freschezza è più smagliante che mai. L’Opera di Roma ha, quindi, deciso di onorare il bicentenario delle opere che hanno avuto battesimo romano, Il barbiere di Siviglia e La Cenerentola (che farebbe, in realtà, duecento anni nel gennaio del 2017), riproponendole proprio nei mesi in cui andarono in scena, rispettivamente gennaio e febbraio – il 20 febbraio del 1816 (Teatro Argentina) il primo; il 25 gennaio 1817 (Teatro Valle) la seconda. L’Opera di Roma regala ben dieci recite de La Cenerentola, con due diversi cast, diseguali per talento e interpretazione, ma all’altezza del compito. Il direttore è l’emergente Alejo Pérez: fatica, e non poco, a entrare nella musica di Rossini, una micidiale trappola: tanto bella che pare si diriga da sola e, invece, necessita di cure e attenzioni che Pérez non le dona a sufficienza. Del resto, lo spettacolo non decolla neanche registicamente: la pur blasonata Emma Dante, nota per il suo impegno in un teatro anticonvenzionale, certamente singolare (chi può dimenticare la sua scaligera Carmen?) si impantana in una regia che punta sul riempimento, trascurando il cesello di alcuni caratteri; i costumi, l’unica nota realmente originale; le scene, invece, alla lunga stancano. La Dante si incardina, poi, su alcune sovrastrutture registico/intellettuali che, oltre a irrigidire taluni passaggi, ne rendono altri ai limiti dell’incomprensibilità. Lo spettacolo viene in ogni caso applaudito, decretando l’unanime vittoria della musica rossiniana.

ROMA, 26 gennaio 2016 – Era il 25 gennaio 1817 quando il melodramma giocoso La Cenerentola di Gioachino Rossini lasciò indifferenti i romani al Teatro Valle: ci vollero – al solito – un congruo numero di recite perché l’opera entrasse appieno nel repertorio buffo. Oggi nessuno oserebbe mettere in discussione l’eccelsa qualità della partitura – anche se, per esempio, un genio della critica come Massimo Mila la riteneva priva di una reale «organicità globale» (e forse è ancora ritenuta una sorella minore del Barbiere). Dopo quasi duecento anni, il Teatro dell’Opera di Roma le rende omaggio con dieci recite e due cast, che fanno il vero nerbo di questa produzione. Si deve ammettere, certo, che l’Opera di Roma ha assunto più di un rischio: tranne i cantanti (tutti, più o meno, ‘rossiniani’, alcuni addirittura purosangue), il direttore Alejo Pérez e la regista Emma Dante sono al debutto in un’opera di Rossini e hanno certamente palesato di essere lontani, nei rispettivi ruoli, dal sentire Rossini a pelle. Pérez ha sotto di sé l’orchestra di Roma, che sa generare quella leggerezza di suono adatta a rendere la musica di Rossini; eppure tende a appesantire in taluni passaggi, a indugiare in altri, a sorvolare altrove con troppa leggerezza, quando il tutto avrebbe bisogno di una freschezza più spontanea, meno calcolata. (Rossini, molto spesso, si sente ancor prima di alzare la bacchetta). Per fare alcuni esempi: nell’ouverture lo stacco fra l’introduzione più lenta e la vivacità della seconda parte è esangue, quando richiederebbe maggior speditezza. Talvolta Pérez vuole giocare di fioretto, rallentando eccessivamente, tanto da rischiare di perdere l’aderenza con i cantanti, che, quando sono impegnati in prodezze verticali, devono essere vieppiù assecondati (fermo restando che le arie di Rossini richiedono coordinazioni millimetriche da eseguirsi con un talento funambolico e, volendo, palesando sprezzatura). Anche nei concertati calca un po’ troppo la mano, alzando, oltre il dovuto, il volume dell’orchestra. Momenti felici ci sono stati. Anzi, in fin dei conti, l’aspetto musicale e soprattutto vocale è il fiore all’occhiello di questa produzione. Pérez fa bene soprattutto nell’accompagnamento delle voci negli ensemble e nei concertati dei due finali. Ma Pérez rimane, per natura, un direttore d’altra musica, soprattutto del patrimonio operistico e concertistico tardo romantico/novecentesco, dove la sua bacchetta appare tutt’altro che rigida – l’ho lodato per la sua recentissima esecuzione della Quinta di Prokof’ev proprio all’Opera di Roma.

Il primo cast è di livello. Il Don Ramiro di Juan Francisco Gatell è ottimo: la sua voce squillante e limpida come una gelida fonte d’acqua coglie i vari sentimenti del principe, come il trasporto amoroso e lo sbotto aristocratico. L’ottimo fraseggio e la convincente interpretazione vocale (ottima soprattutto nel registro medio/alto) ne rendono un erede del gusto di Alva. Fin dal duetto «Un soave non so che» il suo canto elegante e mai sforzato incanta; canto che si sposa con i colleghi nei vari concertati e culmina nella sua effettiva cavatina, ‘ritardata’, «Sì, ritrovarla io giuro», dove affronta dignitosamente le irte difficoltà virtuosistiche (peccato qualche lieve sfibratura negli acuti): non risulta chiaro perché Pérez autorizzi il sovracuto a conclusione della cabaletta, che Gatell esegue abbastanza bene, ma non alla perfezione. Vero vulcano d’inventiva, di bravura, di talento è il Dandini di Giorgio Caoduro. Dandini è un personaggio che si ama visceralmente: poi se è Caoduro a interpretarlo…chapeau. Caoduro, con quella voce pastosa, perfettamente uniforme, voluminosa, scura e elegante, canta una perfetta cavatina, la deliziosa «Come un’ape ne’ giorni d’aprile» (aria giustamente assurta a celebrità), dove a straordinarie doti attoriali coniuga un controllo perfetto della vocalità, sgranature scintillanti delle fioriture – soprattutto nella stretta. Che controllo nei recitativi, che inventiva: un interprete nobilissimo del genere comico e un rossiniano col pedigree. Il duetto con Corbelli (Don Magnifico) «Un segreto d’importanza» è tra i momenti musicali (e registici) più alti dell’opera, vera gara di bravura tra i due sommi interpreti. Il Don Magnifico di Alessandro Corbelli è oramai storico: Corbelli è assurto da tempo nell’empireo della categoria dei bassi buffi (oggi in via d’estinzione), interpretando La Cenerentola innumerevoli volte, e incidendola. Che importa se lo smalto vocale non è più quello di una volta? L’interpretazione è perfetta, carismatica – quand’è sul palco, a tratti si nota solo lui; ma soprattutto Corbelli non si risparmia nelle ardimentose arie che Rossini scrisse per Don Magnifico: dalla cavatina «Miei rampolli femminini» (che diventa un difficilissimo scioglilingua nella stretta, «Col cì cì, col ciù ciù di botto»), all’aria «Intendente! Direttor!», per finire con «Sia qualunque delle figlie», Corbelli intaglia il carattere burbero e buffonesco con un perfetto recitativo e una dizione controllatissima. La sua performance è tra i meriti principali di questa nuova produzione romana. Si giunga alla protagonista, Serena Malfi (Angelina). Non l’ascoltavo dal vivo da anni e non posso che constatare il suo miglioramento: il suo naturale timbro mezzosopranile – che sta sviluppando anche una solida tessitura più bassa, ciò che le concederà anche di affrontare, magari, i ruoli rossiniani en travesti – si sposa bene alla tessitura del ruolo. Sa, inoltre, dosare qualche tono melanconico («Una volta c’era un Re»; «Signore, una parola») con la comicità degli insiemi; ottima la prestazione nel rondò finale di bravura, «Nacqui all’affanno e al pianto», dove tira fuori la voce senza sacrificare il virtuosismo e la leggerezza dei melismi. Buono anche l’Alidoro di Marko Mimica, che sciorina una voce adattissima a un ruolo come il saggio maestro (voce profonda, ma chiara, omogena e squillante) e ci regala una buona «Là del ciel nell’arcano profondo», anche se ha un piccolo passaggio a vuoto, confondendo il libretto. Deliziose, vocalmente e nella recitazione, Damiana Mizzi (Clorinda) Annunziata Vestri (Tisbe): sono tra gli elementi propulsivi dello spettacolo, un vulcano d’energia.

La regia di Emma Dante. Singolare, anticonvenzionale per alcuni versi. Ma anche statica, riempitiva fino all’estremo – in questo, anzi, si attaglia alle ‘rossinianerie’ registiche dei nostri tempi, che non vogliono neanche una ripetizione di cabaletta senza che succeda qualcosa. La Dante è poco attenta, in generale, al cesello dei personaggi e delle situazioni, irrigidita su sketch comici intrisi di elementi di pura denuncia sociale (Cenerentola incatenata nel I atto e picchiata durante il temporale). Ma l’elemento più stancante è la presenza continua dei mimi, bambole a carica che la Dante giustifica in vari modi – sarebbero referenti di un mondo meccanico, in cui i personaggi incapaci di comunicare hanno bisogno di “animelle”: il simbolismo della bambola è sforzato, poi, fino all’estremo quando, nel finale II, Don Magnifico e le due figlie sarebbero trasformati in automi a carica per farli diventare più buoni (quale sarebbe il collegamento fra la bontà e una bambola meccanica?). L’elemento della violenza contro le donne, classico della poetica della Dante, è declinato in tutti i modi, in maniere che a mio avviso sovra-strutturano un’opera che è, val bene dirlo, più semplice di come la Dante ce la presenta: il suicidio delle invitate alla fine del ballo (donne e uomini – questa sì trovata spassosa! – travestiti da spose, che sanno di non aver più chances con il principe) è talmente criptico da non essere decifrabile senza le note di sala. Rossini, e il Rossini comico soprattutto, meriterebbe regie meno arzigogolate, meno intellettuali, più attente a esaltarne la musica che a reinterpretarlo, peraltro forzatamente. Alcune scene sono, però, divertenti: le arie di Don Magnifico; i due personaggi di Tisbe e Clorinda; e qualche guizzo registico, molto spesso – c’è da ammettere – a ideazione dei cantanti stessi (in tal senso Corbelli è un mago del comico). Anche i costumi (Vanessa Sannino), ispirati al Pop Surrealism e all’impianto figurativo delle opere di Ray Caesar – come dichiarato dalla stessa Dante – sanno parlare bene alla contemporaneità, giacché la cultura pop/trash è molto cara al nuovo millennio, e risultano interessanti. Peccato la monotona fissità delle scene (Carmine Maringola): siamo sempre davanti a un’enorme mobile bianco, leziosamente decorato con due ordini di aperture con lesene in gusto neoclassico francese, che aprendosi mostrano una carta da parati – qualche buon espediente nell’uso delle luci (Cristian Zucaro) non cambia molto le cose. La Dante è e rimane una regista intelligente: semplicemente, non sente Rossini, non è nelle sue corde, non riesce a far ridere mettendolo in scena – altro esito avrebbe avuto, forse, una sua reinterpretazione di un’opera seria del maestro.

foto Yasuko Kageyama


 

 

 
 
 

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