L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

L’altro Falstaff

 di Francesco Lora

Shakespeare nella versione di Antonio Salieri: al Theater an der Wien è trionfo per lo spettacolo con regìa di Torsten Fischer e direzione di René Jacobs. Nella compagnia di canto, belcantisti del calibro di Anett Fritsch, Alexandrina Pendatchanska e Maxim Mironov.

VIENNA, 23 ottobre 2016 – Non Verdi, ma Salieri. In una produzione teatrale con decine di titoli, il suo Falstaff del 1799 non è un capolavoro di primo piano; gode però dell’effetto-traino della ben più nota opera verdiana sullo stesso soggetto, diverte per il gusto inglese nelle melodie e nella strumentazione – un omaggio all’ambientazione e alla fonte shakespeariana – e partecipa delle forme musicali e teatrali praticate nel misterioso interregno tra Mozart e Rossini. Il Theater an der Wien l’ha scelto come secondo allestimento della propria stagione: sei recite dal 12 al 23 ottobre, con un fervido passaparola e una folgorante riscossa dalla prima, scarsa di pubblico, all’ultima, affollata sino all’ultimo posto e portata in interminabile trionfo. Il primo merito è quello di aver posto libretto e partitura in mani consce dei punti deboli e nel contempo risolute a trarne un grande spettacolo: un regista inesauribile d’idee, un direttore con controllo totale della situazione, una compagnia di canto capace di assicurare alla singola recita l’energia attoriale di solito richiesta per dieci serate.

L’allestimento ha regìa di Torsten Fischer, scene e costumi di Vasilis Triantafillopoulos e Herbert Schäfer, luci di Fischer stesso e Ralf Sternberg, drammaturgia ancora di Schäfer; ed è un allestimento di puro genio, da conoscere direttamente in teatro, impossibile da descrivere senza ridurre il profumo di brace della grigliata all’artificio insapore del forno a microonde. Si ride a crepapancia, soprattutto: e in ciò non v’è male, poiché il libretto stesso ciò sollecita con numerose situazioni farsesche. Ma là dove la commedia italiana cerca il sorriso che allea l’attore misurato e accorto con lo spettatore madrelingua, e là dove la stessa è travisata nei teatri mitteleuropei con una buffoneria gestuale che esce dal testo pur d’incassare la risata, Fischer trova il punto di conciliazione tra i poli distanti: si assiste alla comprensione e alla spiegazione del lavoro teatrale, con un’analisi capillare ed esatta poi convertita nel massimo dispiegamento di risorse; il pensiero mai esausto si traduce in un’azione che non ammette pigrizia né stanchezza. E quel che avrebbe potuto scadere in avanspettacolo passa invece a teatro della meraviglia.

Due soli esempi di metodo, astuto, e di limite, lontano. Il primo: nei personaggi delle famiglie Ford e Slender sono ben riconoscibili, con un miracolo di arte costumistica, i membri dell’odierna famiglia reale britannica; parrebbe non più che un debole pretesto ambientale, per affermare con maggior vigore il luogo dell’azione e, forse, per individuare nel quieto vivere dei Windsor la conseguente noia delle allegre comari di Windsor; ma l’esito è formidabile: identificato in ciascun un personaggio del libretto un ancor meglio riconoscibile personaggio dei rotocalchi, ogni garbuglio dell’azione finisce in pugno ad attenzione infallibile e spasso sincero. Il secondo esempio: riemerso dal Tamigi e di nuovo gabbato da Mrs. Alice Ford, il panciutissimo Sir John Falstaff deve camuffarsi da vecchia; nella concitata svestizione, il regista fa togliere all’attore non solo l’abito, ma anche i cuscini che lo deformano, fino a lasciare sulla scena il mero corpo del baritono, ossia un nuovo corpo per il personaggio; scombinato dal gioco surreale, a quale livello si pone dunque il vero aspetto del personaggio – l’essere umano – e a quale la sua contraffazione?

Complice discreto e ideale del lavoro teatrale è, dalla buca d’orchestra, il concertatore René Jacobs alla testa dell’Akademie für Alte Musik di Berlino, cui si affianca l’Arnold Schönberg Chor preparato da Erwin Ortner. Curioso è inseguire con l’occhio, tra la selva di teste della platea, il lavoro di Jacobs sul podio: un gesto di articolazione dilettantesca e poverissimo vocabolario, in apparenza inintelligibile per le file d’orchestra. Ma l’orecchio sbugiarda il mistero che l’occhio non può sciogliere: con i suoi modi goffi, sornioni e impenetrabili da Cheshire Cat, il direttore belga – solo egli sa come – pesca dall’orchestra fiammate argentee, onomatopee ironiche e mormorii edenici, con un senso del teatro che lo eleva a co-autore del testo e a co-regista nella lettura. Curiosità: se un non fastidioso horror vacui innerva ciò che si vede sulla scena, di pari intento procede Jacobs nel farcire il programma musicale; egli fa così eseguire al fortepiano, in punta di piedi tra una scena e l’altra, le rare dieci variazioni che Beethoven compose sul tema del duettino «La stessa, la stessissima» dal Falstaff stesso (atto I, scena VI).

Compagnia di canto dove tutti s’impongono per dedizione e atletismo attoriale, dove l’intelligenza musicale è parimenti fuori discussione e dove la differenza sta dunque soltanto in doti naturali e risorse tecniche. Il gruppo degli istrioni infallibili, benché menomati nell’attrattiva timbrica e nella sciolta modulazione, è formato dai tre baritoni Christoph Pohl come Falstaff, Robert Gleadow come Bardolf e Arttu Kataja come Mr. Slender. All’opposto stanno i tre soprani: come Alice, un’Anett Fritsch eccellente per rifinitezza d’emissione, luminosità di timbro e prontezza di vis comica, nonché per spigliata fluidità della prosodia italiana; come Mrs. Slender, un’Alexandrina Pendatchanska che sa portare con statura di primadonna, tanto grintosa quanto autoironica, il progressivo disarmo vocale; come Betty, una Mirella Hagen decisa a farsi notare, quand’anche da una particina, per la freschezza dei mezzi e l’evidenza dello studio. Cerniera tra i baritoni e i soprani è, infine, il tenore Maxim Mironov come Mr. Ford: alte referenze rossiniane e provvidenziale adozione italiana ne fanno, tout court, un mordace modello di vulcanica eleganza.

foto Herwig Prammer


 

 

 
 
 

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