L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Juan Diego Florez e Isabel Leonard

Sognare la morte

 di Roberta Pedrotti

Il debutto scenico di Juan Diego Flórez come Werther è un successo ben condiviso con l'ottima Charlotte di Isabel Leonard grazie anche al perfetto meccanismo musicale e drammaturgico costruito da Michele Mariotti sul podio e dalla regia di Rosetta Cucchi in totale sintonia con caratteristiche e temperamento del tenore peruviano.

Leggi la recensione della recita con Celso Albelo e José Maria Lo Monaco

BOLOGNA, 15 dicembre 2016 - Inutile negarlo: fin dal primo annuncio di questo Werther, da quando era solo un sussurro fra corridoi e foyer, gli sguardi sono sempre stati puntati sul debutto scenico di Juan Diego Flórez nel ruolo eponimo, mitico totem tenorile. Diciamolo dunque subito, è stato un bel debutto, per più ragioni, la prima delle quali è forse la più ovvia, l’evidente amore dell’artista per l’opera e il personaggio. L’approccio è stato graduale e si è sviluppato su due fronti: da un lato, infatti, lo hanno preceduto, oltre a un CD e a concerti dedicati al repertorio francese, i debutti come Romèo e Nadir (Les pêcheurs de perles), dall’altro, il più significativo, ha seguito il percorso evolutivo dell’haute-contre francese affrontando sia la versione parigina dell’Orfeo di Gluck adattata per il grande Joseph Legros, sia l’Arnold del Guillaume Tell [leggi la recensione dal vivo e in DVD] e il Raoul di Les Huguenots [leggi la recensione], entrambi creati da Adolphe Nourrit. Haute-contre significa la radice stessa del canto tenorile d’Oltralpe, acutissimo, energico, dal declamato nobile e perentorio. Non un tenore drammatico, ma sicuramente l’origine della tradizione dei Werther più spinti (i Thill, i Corelli, fino ai Kaufmann) contrapposta a quella, più latina, dei Werther più lirici e “di grazia” (gli Schipa, i Kraus, i Sabbatini). Flórez, proveniendo da un repertorio belcantistico, sarebbe per logica assimilabile a questo secondo filone, senonché il suo temperamento e le sue caratteristiche vocali finiscono per individuare una strada alternativa, che rilegge anche il modello drammatico, ma alla luce dell’esperienza dell’haute-contre. Non è una voce, la sua, particolarmente piena e penetrante, bensì lunare, con un’anima fragile e spettrale, che non si illanguidisce nel cantabile, ma s'impenna o sussurra nella parola: la malinconia ineluttabile di Werther gli è congeniale, così come la sua astrazione dal mondo concreto. Potrebbe sembrare un paradosso, ma proprio quella che in certo belcanto può essere interpretata come una certa mancanza di fantasia, in Werther diviene espressione del male di vivere, della poesia dell’eroe romantico che non trova asilo in questo mondo; l’astrazione sublime rossiniana porta in dote la tragica astrazione del protagonista. Per di più, questo canto sembra calzare in modo particolare all’emissione e alla musicalità di Flórez, con una franchezza e una fluidità negli acuti, un’espressione e una coerenza con il fraseggio superiori al consueto.

Tutto funziona benissimo anche e soprattutto in virtù di un perfetto gioco di squadra con la regia di Rosetta Cucchi (scene di Tiziano Santi, costumi di Claudia Pernigotti, luci di Daniele Naldi) e la concertazione di Michele Mariotti. La prima, con estrema cura, sviluppa la vicenda come un’analessi negli ultimi istanti di vita di Werther, ma la linea dei ricordi si intreccia a una linea onirica in cui si figura non ciò che è stato ma ciò che il poeta avrebbe desiderato: lo spunto di per sé non originalissimo diviene così un’intelligente amplificazione della struttura tematica, timbrica e armonica della partitura, un viaggio attraverso la mente del protagonista in cui il tempo è scandito dalla musica e nel quale diversi momenti possono coesistere nel ricorrere dei Leitmotive o di oggetti simbolici (il libro, il carillon, il ritratto della madre di Charlotte, la scatola delle pistole). La dimensione sonora di questo spazio interiore è illustrata da Michele Mariotti in una delle sue migliori concertazioni. Dal punto di vista strettamente pragmatico, è sempre attento a sostenere le voci senza coprirle, benché fra terzo e quarto atto la temperatura drammatica esiga sonorità più spesse, ma iscritte in un arco che ha come fulcro centripeto il colpo di pistola esploso durante l’Entr’acte. All’inizio l’idillio irrealizzabile, il microcosmo domestico e paesano della casa del Bailli (Luca Gallo) con i suoi bimbi (ottime le voci bianche preparate da Alahmbra Superchi), degli amori di Kätchen e Brühlmann (Aloisa Aisenberg e Tommaso Caramia), della bonaria goliardia di Johann e Schmidt (Lorenzo Malagola Barbieri e Alessandro Luciano) sembrano quasi ovattati, come emergessero soffusi da un ricordo, scontornandosi man mano, liberandosi dei dettagli superflui, dei piccoli aneddoti, per precipitare vorticosamente verso il cuore della tragedia e quell’inevitabile sparo. Poi l’atmosfera parrà diradarsi, alleggerirsi nuovamente, ma solo per dissolversi nella morte, mentre il ripetersi ciclico dell’inno natalizio dei bambini e di quello alla gioia di Sophie assume un tratto sinistro. In quest’arco tutti i temi sono delineati, sviluppati, intrecciati e sovrapposti con lucida maestria e ottima compenetrazione da parte dell’orchestra. Ecco, allora, un perfetto esempio di come valorizzare un cantante non significhi servirlo passivamente, bensì costruire insieme una lettura compiuta, coerente, condivisa. Senza trascurare nessun elemento.

Werther, infatti, gravita attorno al protagonista, vive attraverso il suo sguardo, ma non è un monodramma e ai deuteragonisti spettano attenzioni non inferiori. Ruth Iniesta è una Sophie debitamente saltellante e radiosa, ma sa anche mostrare disappunto e imbronciarsi, lei che nel primo atto si mostra come un maschiaccio in salopette e si trova poi, dopo il matrimonio della sorella maggiore, a vestire i panni della nuova “donna di casa”. Jean-François Lapointe è un po’ impettito come Albert, qualche suono è un po’ ingolato, tuttavia il personaggio del marito apparentemente felice ma non riamato e incapace di esprimere fino in fondo i propri sentimenti è ben reso. Spicca, però, inevitabilmente la Charlotte di Isabel Leonard, citata per ultima solo per serbarle l’onore di chiudere in bellezza: perfetto il physique du rôle, sottile e slanciato, perfetto l’affiatamento vocale con Flórez, in virtù di un leggero vibrato caratteristico, ma anche di una brunitura che senza pregiudicare la freschezza femminile del timbro gli conferisce una certa qual maggior cremosa concretezza, fra il materno e il sensuale. La qualità della voce si sviluppa nell’ascesa all’acuto, ma l’emissione non conosce forzature e risulta sempre ben controllata. Le si consiglia solo un po’ più d’attenzione all’articolazione della parola cantata.

Fra tanti apprezzamenti, un appunto va fatto: possibile che, soprattutto per un evento così importante e atteso, si siano riscontrati tanti svarioni nella traduzione proiettata sulla scena? Beau-frère significa cognato, ed è perfettamente logico che Sophie appelli così Albert, non “bel fratello”; Femme significa tanto donna quanto moglie, ma se Charlotte sta parlando del suo legame con Albert è ovvio che bisognerebbe farle dire “sono sua moglie” e non “sono la sua donna”. Parimenti fa sorridere che Werther definisca la sua tomba quella di un “bandito” (Banni) e non, semmai, di un reietto, mentre rendere “Lorsque l’enfant revient d’un voyage” con “Quando un bambino torna da un viaggio” significa travisare il senso letterale del passo ed eludere l’allusione esplicita alla parabola del figliuol prodigo (in francese, appunto, Enfant prodigue). Peccato, sarebbe bastato utilizzare il testo italiano riportato nel programma di sala.

Grandi applausi per tutti alla prima, con particolari acclamazioni per Florez ma senza trascurare i meriti di tutti gli interpreti e artefici della serata.

foto Rocco Casaluci


 

 

 
 
 

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