L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Attila a Venezia, Vittoria Yao, Roberto tagliavini

Attila coprodotto, nuovi interpreti in laguna

 di Francesco Lora

Per l’opera verdiana si chiude a Venezia il giro dell’insipido allestimento con regìa di Daniele Abbado. Dopo Bologna e Palermo, nondimeno, una terza lettura musicale vanta un valido quartetto di prime parti e la preziosa direzione di Riccardo Frizza.

Leggi le recensioni anche delle precedenti tappe della coproduzione (con cast differenti):

Palermo, Attila, 19/02/2016

Bologna, Attila, 26/01/2016

Bologna, Attila, 24/01/2016

VENEZIA, 13 dicembre 2016 – Una coproduzione svolta a ritmi serrati: l’Attila di Verdi con regìa di Daniele Abbado, scene e luci di Gianni Carluccio e costumi di quest’ultimo e Daniela Carnigliaro è stato varato nello scorso gennaio al Teatro Comunale di Bologna, in febbraio era già al Teatro Massimo di Palermo e ha appena chiuso il giro al Teatro La Fenice di Venezia (cinque recite dal 9 al 17 dicembre). L’allestimento dorma ora sonni tranquilli nel suo grigiore insipido, che abbandona a sé stessi la drammaturgia e il lavoro con gli attori, e che rasenta il ridicolo – l’opera dura soltanto un’ora e cinquanta minuti – nei troppo lunghi cambi-scena a sala semi-illuminata: quando il sipario si riapre, si direbbe che nulla sul palcoscenico sia cambiato.

Come già a Bologna e Palermo, anche a Venezia la lettura musicale ha però dato ampie ragioni di godere dello spettacolo, tanto più che la locandina è stata sempre vigorosamente riassortita. La compagnia di canto schierata in laguna, in particolare, si è distinta per l’apparente economia della formazione e per una bontà di risultato superiore all’aspettativa. Stupiscono in particolare la facilità e la generosità da tutti dimostrata in una partitura densa e impervia, con una prodigalità di volume, squillo e smalto non frequenti in una rappresentazione verdiana. Si perdona dunque volentieri la relativa timidezza retorica di Roberto Tagliavini nella parte del titolo: se ne ricava anzi un’inedita visione del personaggio, la quale ammette il dubbio del pensatore dietro la sicumera del condottiero, mentre il canto si conserva sempre fresco, morbido, timbrato, giovanile, impensierito soltanto dal Fa acuto al termine della cabaletta (quella che Samuel Ramey, fantasma temibile, bissava a furor di popolo nello stesso teatro). Materiale forse naturalmente più solido ma certo tecnicamente più grezzo è quello di Julian Kim come Ezio: in lui si perpetua, come nella bella provincia di un tempo, la superficialità psicologica dell’interprete ma anche la copiosa liberalità del baritono.

Nei panni di Odabella convince appieno Vittoria Yeo, che si riscatta dalla scialba prova nella Giovanna d’Arco a Parma [leggi la recensione]: suo modello evidente è Leyla Gencer, parafrasato nell’esuberanza del registro di petto, nell’entusiastica energia di quello di testa, non sempre nella nitidezza della coloratura, ma lampante nell’incisività conferita alla parola; si percepisce da quale sacco venga la farina, e come la discepola non possa insidiare la maestra; ma basta questa forma diminuita per garantire un accento instancabile, vivo e trascinante, come nell’eroina si è ascoltato di rado dopo il memorabile esordio di Dimitra Theodossiou. Accanto alla Yeo si impone nondimeno il magnifico Foresto di Sefan Pop, beato della sua vocalità lucente, risonante, cospicua d’armonici, aperta alle sfumature del caso senza per questo impoverire la pasta canora o calligrafare la franchezza del porgere. E con rigorosa professionalità agiscono ancora Antonello Ceron come Uldino e Mattia Denti come Leone.

Preziosa è infine la direzione di Riccardo Frizza, il quale esegue l’opera senza tagliare una sola battuta, reclama da tutte e quattro le prime parti variazioni nella cabalette, ed esalta il dettato della partitura per quello che è, senza la pruderie di chi vorrebbe occultare il grottesco musicale insito nel linguaggio teatrale verdiano; così, non solo è sdoganata in tutta la sua brillantezza una fonica ancora debitrice del Rossini strumentatore, ma nella stretta del Finale II anche il tempo è così rettamente indiavolato, e così ritmicamente inesorabile, da rivelare il fiammeggiante can-can che sempre si vorrebbe udire: le ragioni strutturali e il gioco teatrale lo sottintendono e, per flusso di adrenalina, se ne giovano oltre ogni immaginazione. Quanto detto denota anche l’eccellente intesa del concertatore con l’Orchestra del Teatro La Fenice, gagliarda e scattante, e col relativo Coro preparato da Claudio Marino Moretti. E il pubblico, folto fin nell’uggiosa serata infrasettimanale dicembrina già sgombra di turismo, ringrazia caloroso.

foto Michele Crosera


 

 

 
 
 

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