L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Non c’è trucco non c’è inganno

  di Antonino Trotta

Il capolavoro dell’enfant prodige ritorna al Teatro Regio di Torino dopo tre anni. Grande successo per il lascito mozartiano.

Leggi anche la recensione del primo cast a cura di Alberto Ponti

TORINO, 20 Maggio 2017 – Non vi è alcun dubbio sul fatto che nell’immaginario collettivo Il flauto magico sia un sinonimo di opera lirica. Grandi e piccini, melomani e non, chiunque (o quasi) ha sentito parlare almeno una volta nella vita dell’ultimo lavoro teatrale di Wolfgang Amadeus Mozart che, forse al pari di La traviata, è una delle opere più eseguite al mondo. Allestire Die Zauberflöte dunque rappresenta sempre un’avvincente sfida per un teatro lirico, soprattutto per il grande richiamo di pubblico (buona parte attirato dalla celeberrima aria della Regina della Notte), come testimoniato dalla sala del Teatro Regio completamente piena. Capolavoro senza luogo e senza tempo, dall’impronta fantastica ma secondo gli studiosi pregna di sottotesti, Il flauto magico è un bacino di informazioni che si presta ad essere decriptato con diversi codici di lettura offrendo la possibilità di intavolare sempre qualcosa di innovativo nella sua realizzazione.

Per questo Flauto il Teatro Regio rispolvera un allestimento messo in scena già nel gennaio 2014, produzione del Teatro Massimo di Palermo (2011). La regia di Roberto Andò, ripresa da Riccardino Massa, evidenzia e gioca con il carattere fiabesco del capolavoro mozartiano senza impelagarsi in moderne elucubrazioni massoniche. Epicentrale per la riuscita dello spettacolo è la figura di Papageno, intorno al quale il regista sapientemente tesse tutto il canovaccio comico dell’opera. I cantanti superano la botola, invadono la platea, si muovono tra le poltrone, si rivolgono al pubblico. Un’abolizione della “quarta parete” che con intelligenza canalizza l’attenzione degli spettatori anche durante le sezioni recitate, dove l’utilizzo del libretto in tedesco rischia di far scemare il livello di partecipazione. Suggestive le scene di Giovanni Carluccio: se da un lato non impressionano per la loro ricchezza, dall’altro l’essenzialità degli elementi offre allo spettatore un incipit per un lavoro di completamento immaginifico. La macchina scenica è presentata in tutta la sua antica onestà, quasi flashback teatrale, che profonde nel pubblico un senso di nostalgia estatica, quella sensazione che si può provare ad esempio nell’osservare una vecchia radio a valvole dall’alto dell’attuale consapevolezza tecnologica. Non mancano tuttavia dettagli simbolici: i fanciulli, ad esempio, fluttuano su una barca sacra (alata), quel battello fluviale che presso gli antichi Egizi assurge a simbolo di imbarcazione rituale. I costumi di Nanà Cecchi non brillano per originalità ma sposano perfettamente il taglio dell’opera effettuato dal regista.

Gli applausi più calorosi della serata sono dedicati a Thomas Tatzl (Papageno), meritati non solo per la bravura con cui dipinge scenicamente il simpatico personaggio, ma anche per la brillantezza con cui gli dà vita vocalmente. Già nell’aria di sortita «Der Vogelfänger bin ich ja» il basso-baritono austrico mostra un’assoluta padronanza della parte, un colore brunito, un volume sostanzioso, e una grande varietà di accenti. Perfettamente adatto al ruolo anche dal punto di vista vocale, il Tamino di Alessandro Scotto di Luzio emerge per la purezza dell’emissione e del fraseggio. Il canto legato e ricco di dinamiche conferisce al principe mozartiano un'allure regale e una caratura virtuosa. Molto più delicata è la figura di Pamina, interpretata da Ekaterina Sadovnikova. Soprano lirico-leggero, la Sadovnikova sfoggia una voce correttamente sostenuta e proiettata, con la quale trasporta la platea in un’atmosfera di grande lirismo a suon di eteree filature, specialmente nell’aria «Ach, ich fühl's, es ist verschwunden».

Bravissima Olga Pudova, rodata Regina della Notte (prese già parte alla produzione torinese del 2014), che affronta con sicurezza l’infausto ruolo e la pressione che ne scaturisce. La voce cristallina ma non priva di sfumature drammatiche le permette di plasmare una regina che poco ha da invidiare a quella ormai celeberrima della Damrau. Le due insidiose arie «O zittre nicht, mein lieber Sohn!» e «Der Hölle Rache kocht in meinem Herzen» sono fronteggiate con piglio da prima donna e tempra da valchiria: i sovracuti sono tutti a fuoco, la linea melodica è pulita e le agilità sono superate con grande slancio.

Bravo Antonio Di Matteo nei panni di Sarastro, basso dotato di un timbro molto caldo e di un lodevole legato, anche se la voce perde spessore ed incisività nelle note più gravi. Spiritosa la Papagena di Elisabeth Breuer, che emoziona molto nel famoso duetto con Papageno. Assolutamente pregevoli le tre dame: nell’ordine, Sabina von Walther, Stefanie Iràny ed Eva Vogel.

A completamento dell’ottimo cast di cui si è avvalso il Regio ci sono i tre fanciulli (Fiammetta Piovano, Sara Jahanbaksh e Sara Rastello), il tenore Cameron Becker (Monostatos), il basso Roberto Abbondanza (oratore e primo sacerdote), il tenore Cullen Gandy (secondo sacerdote e primo armigero), il basso Luciano Leoni (una voce e secondo armigero) e il coro del Teatro Regio.

Il comando della nave orchestrale è affidato dell’israeliano Asher Fisch, che valorizza in ogni momento della partitura i vari giochi strumentali che caratterizzano la scrittura del genio di Salisburgo. Le sonorità sono piene, le dinamiche ben pronunciate, i tempi abbastanza distesi. Il maestro (che ha studiato con Daniel Barenboim) dimostra grande duttilità sul podio, riuscendo a virare da un’impostazione solenne ad una leggiadra senza alcuna difficoltà, complice anche la brillantezza dell’orchestra del teatro che si è dimostrata padrona di differenti stili esecutivi.

Quasi in conclusione della stagione, il Teatro Regio di Torino ha offerto un Flauto in tutta la sua innocente bellezza, uno spettacolo a cui abbandonarsi senza troppi “perché”, un viaggio senza navigatore satellitare in cui fermarsi ad ammirare spesso il panorama, senza avvertire la necessità di guardare oltre, perché nel Flauto l’infinito è al di qua della siepe.  


 

 

 
 
 

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