L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Salvini vs Adelson

 di Giuseppe Guggino

Approda a Catania l’esecuzione del primo lavoro teatrale di Vincenzo Bellini nell’edizione critica che ricostruisce la prima versione dell’opera con la quale il compositore catanese si licenziò dagli studi a Napoli. Nel dramma semiserio di un’amicizia minata dall’incolpevole Nelly la spunta Lord Adelson sull’italiano Salvini, anche se per contro i mezzi vocali assecondano più il bravo Francesco Castoro su Carmelo Corrado Caruso. Irresistibile la verve scenica di Clemente Antonio Daliotti che, complice la direzione di Fabrizio Maria Carminati, contribuisce a suggellare una serata belliniana complessivamente piuttosto felice.

Catania, 30 settembre 2018 - Come di consueto, il Teatro Bellini di Catania dedica l’ultima decade di settembre al massimo compositore cittadino, puntando quest’anno sull’allestimento del primo lavoro per la scena di Bellini che ne segnò il passaggio dalla vita di conservatorio alla tanto folgorante quanto breve carriera operistica.

Un convegno internazionale per fare il punto sugli studi belliniani è stato pregevole corollario di una non meno meritoria realizzazione di Adelson e Salvini in coproduzione con il Teatro Pergolesi di Jesi (dove lo spettacolo, documentato in dvd, è andato in scena lo scorso anno) affidata alle cure di Fabrizio Maria Carminati e con la regia di Roberto Recchia. Si tratta ormai della terza esecuzione, dopo l’edizione discografica Opera rara [leggi la recensione] e le recite di Jesi, della nuova edizione critica dell’opera nell’originale versione in tre atti con dialoghi parlati. Saggio di fine studi sì, ma fino ad un certo punto, se ad un palpabile impaccio nel risolvere i finali d’atto fa da contraltare un apprezzabile intuito teatrale nella scrittura per il buffo napoletano Bonifacio, pur sempre chiamato a cantare ribattuti, o nelle due grandi pagine solistiche di Nelly nel primo atto e Salvini nel terzo. Una scrittura musicale talvolta diseguale, con la fragilità che gli deriva dall’essere modellata sulle capacità tecniche per studenti (tutti uomini) del conservatorio, eppure fascinosa, che trova in Carminati, questa volta, un realizzatore sensibilissimo e attento, complice l’Orchestra del Teatro Bellini che in questo repertorio non teme rivali. Lo stacco dei tempi è parso vario e pur sempre appropriato sin da quella sinfonia mutuata da un precedente lavoro sinfonico che finirà poi rielaborata nel Pirata. Lo stesso dicasi per le sonorità sempre ben calibrate e per la precisione di tutte le sezioni, legni in primis, con particolare menzione per il corno inglese obbligato dell’aria con cori del tenore Salvini “Sì, cadrò… ma estinto ancora”, momento di maiuscola invenzione melodica (sinora sconosciuto, stante che la seconda versione dell’opera - progetto peraltro parzialmente portato a compimento e comunque non integralmente ascrivibile a Bellini - la espungeva). E tanto più grande è l’effetto del numero se, come in questo caso, con il sostegno del Coro maschile del Bellini preparato da Luigi Petrozziello, lo si apprezza da una voce dal timbro privilegiato quale è quella di Francesco Castoro, capace di un grande afflato romantico (non esente però da qualche strozzatura nel passaggio) e di pianissimi preziosi, alle prese con gli iperbolici spropositi amorosi per l’amata corrisposta dell’amico Lord Adelson a cui, viceversa, Carmelo Corrado Caruso poco altro può donare, oltre che una buona pasta baritonale, atteso l’evidente disagio nella realizzazione delle - peraltro non trascendentali - agilità. A Josè Maria Lo Monaco il compito di sortire con “Dopo l’oscuro nembo” (nella versione in fa maggiore, la più acuta fra le tante elaborate da Bellini per l’Adelson fino al do minore, prima di reimpiegare il pezzo in sol maggiore come sortita di Giulietta nei Capuleti e i Montecchi), per poi proseguire con una felice realizzazione del personaggio di Nelly. Soffrono un poco la scrittura grave, pensata per allievi maschi en travesti, sia Lorena Scarlata sia Kamelia Kader, impegnate rispettivamente come Fanny e Madama Rivers, pur risultando nell’insieme sufficienti e non impari rispetto allo Struley di Giuseppe De Luca, assistito nelle sue malefatte nell’ostacolare le nozze tra Nelly e Adelson dal Geronio di Oliver Purchauer, talvolta meno a proprio agio nei lunghissimi (e non scorciati) parlati nell’ampolloso italiano di Andrea Leone Tottola. E per fortuna che, fra tanti dialoghi a inframezzare i numeri, si ritrovava l’arte scenica da consumato mattatore di Clemente Antonio Daliotti, dall’idioma napoletano plausibilissimo, peraltro di notevole bravura nelle due arie e in quant’altro deve intonare l’improbabile Bonifacio Voccafrolla; se non altro va a facilitare la vita del regista alle prese con una trama un poco farraginosa nelle azioni, consentendo così a Roberto Recchia di esorcizzare la noia, pur in uno spettacolo che, per povertà di mezzi, intende collimare con l’idea di un lavoro scenico pensato non già per i mezzi scenotecnici di un teatro d’opera ma per un conservatorio. Cosicché l’esotica ambientazione in Irlanda e l’ossequio del libretto che vorrebbe Salvini pittore hanno suggerito a Benito Lenori una scena costituita da una successione di quadri di William Etty, pittore inglese del primo ottocento dai colori per la verità un poco troppo tetri per un’opera semiseria a lieto fine; idea peraltro riflessasi coerentemente anche nei costumi di Buyse Dian e nel disegno luci di Alessandro Carletti.

Successo di pubblico, anche in una delle ultime recite di cui si riferisce, con l’auspicio che la sinergia realizzata in questa occasione tra ricerca musicologica in ambito belliniano e serate d’opera possa meglio strutturarsi negli anni, a dar luogo a quel “Festival Bellini” che ormai da troppo tempo si tenta di varare.


 

 

 
 
 

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