L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Fascino e talento di Francesco Granata

 di Alberto Spano

Per la rassegna Talenti del Bologna Festival, il ventenne Francesco Granata dimostra un talento pianistico di classe superiore che, se depurato da un certo autocompiacimento, potrà condurlo a divenire uno dei migliori pianisti del domani.

BOLOGNA, 4 aprile 2018 – Francesco Granata è milanese, ha vent'anni e nell'ottobre scorso ha vinto il Premio Venezia del Teatro La Fenice, cioè il concorso nazionale riservato ai migliori diplomati in pianoforte dei conservatori italiani. Un concorso che nel passato ha laureato quasi tutti i migliori pianisti oggi in circolazione, e che nelle ultime edizioni ha potuto vantare giurie prestigiose, premi in danaro sempre più ingenti e ingaggi importanti. Uno dei maggiori è sicuramente quello al Bologna Festival: eccolo dunque arrivare fresco di vittoria all'Oratorio di San Filippo Neri di Bologna a inaugurare la stagione “Talenti”. Diciamo subito che Granata è ascrivibile alla categoria dei pianisti che più amiamo, cioè quelli che partono dal suono dello strumento. In questo caso uno splendido Steinway & Sons di appena quattro anni della collezione di Fabio Angeletti.

Granata, che nonostante l'età è già in possesso di una paletta timbrica variegatissima e di un suono naturalmente bello, parte dunque dalla materia sonora e dalle qualità dello strumento di cui dispone. In questo caso, esordendo con il lungo brano Vallé d'Obermann di Liszt dal secondo libro degli Anni di Pellegrinaggio , apre il concerto con un suono già liquido, immaginifico, evocatorio. E fin dalla prima nota toccata si capisce che esaspera questa ricerca, sceglie tempi lentissimi, quasi insostenibili, spesso tira indietro. Il suo atteggiamento è intellettuale e raffinato, ma denuncia un autocompiacimento provocatorio che a volte è quasi urticante. Ecco dunque un primo limite, quasi uno stato d'animo che sembra voler colpire tutto il programma, peraltro impaginato con perizia. E invece no, è un processo abbastanza naturale, pare non cercato e frutto di un proprio modo d'essere. Dopo un primo sconcerto per questa tendenza ad usare il ralenti , lo si accetta e via via lo si impara ad amare e ci si adegua ai suoi tempi dilatati. Il pubblico ci casca, sembra ipnotizzato. Il processo incantatorio-sonoro di Granata e il suo naturale carisma aiutano non poco nel corso del recital, che dopo Liszt offre i Miroirs di Ravel, ma rasenta la provocazione quando i tempi sono al limite dello spappolamento sonoro, tanto che la tensione sonora stenta a reggere, e si genera una non feconda stasi musicale. Peccato. Ciò succede più volte nel corso della serata, anche per via di un uso generoso del pedale di risonanza e di quello “una corda”, ma non sempre perfettamente a fuoco, tanto da far quasi spesso annegare in questo fascinoso lago le linee portanti. È indubbio però che Granata, che ora va perfezionandosi con Benedetto Lupo a Santa Cecilia, di talento ne abbia da vendere, di quello raro, pregiato, intelligente. Questi estremi ritmici risultano meno evidenti nel primo libro dei Preludi di Debussy ascoltato nella seconda parte del concerto, dove Granata sa offrire momenti assolutamente straordinari, in cui il virtuosismo è timbrico, ma anche digitale e il possesso dello strumento è completo (vedi i rilievi dei bassi e la luminosità degli alti), per esempio in C'est qu'a vu le vent d'Ouest , nella Sérénade interrompue o nella Cathédrale engloutie.

Granata si ascolta, si ascolta continuamente, e pare compiacersi. Un gran bene, diremmo, in un'epoca in cui passano migliaia di pianisti bravissimi ma standardizzati. Lo sappia fare ancora meglio di ascoltarsi, riduca gli indugi, sciolga la musica che è in sé e la lasci scorrere, non diventi manierista. Si svilupperà uno dei migliori pianisti del domani, forse un novello Dino Ciani.


 

 

 
 
 

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