L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Così è, se vi pare

 di Antonino Trotta

Simone Del Savio, Vittorio Prato e Lucrezia Drei sono i protagonisti del fiabesco allestimento di Le nozze di Figaro del Teatro Coccia di Novara. Sul podio, alla guida della splendida Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, Erina Yashima intavola una concertazione garbata e affabile.

Novara, 15 Febbraio 2019 – Nel Settecento Mozart non è stato solo protagonista della scena musicale, ma anche ironico vignettista di una società in rapida trasformazione che guardava all’esperimento democratico e repubblicano d’oltreoceano pur rimanendo impelagata in una comunità ancora impolverata da tonnellate di cipria. Di questo ambiente in silenzioso tumulto il teatro si fa specchio autentico, giacché Diderot nel Discorso sulla poesia drammaticae quindi Beaumarchais nel Saggio sul genere drammatico serio pongono al centro della ribalta non più “caratteri” ma “condizioni”, solo all’interno delle quali si potrà cogliere la verità psicologica dei personaggi. Mozart e Da Ponte non ignorano il nuovo manifesto e nel primo capitolo della celebre trilogia, la commedia degli intrighi, distratta dal conflitto dei sessi e dalla goliardia amorosa, nasconde i sottilissimi livori della lotta di classe e del desiderio di rivalsa: l’insolente cavatina di Figaro («Se vuol ballare, signor contino»), un soliloquio a tu per tu con la platea, vuole dare sfogo all’insofferenza verso la corte, a cui si allude tramite la metafora della danza, e pare persino inneggiare all’insurrezione popolare («tutte le macchine rovescerò») che di lì a poco avrà luogo. Certo, da qui a dire che Mozart sia stato, politicamente parlando, un rivoluzionario così come Verdi per il Risorgimento italiano, il passo è lungo, e pure coraggioso. Nella dimensione del gioco – tanto consona alla poetica musicale mozartiana – che riflette la realtà pur svolgendosi su un piano ad esse parallela, quello della coppia italo-austriaca sembra essere niente più di un commento sapido, sarcastico e lucido al proprio secolo, appena accennato a fior di labbra, rivolto a un pubblico forse ancora sordo al cigolio degli ingranaggi della macchina del cambiamento.

In quest’ottica, la soluzione metateatrale proposta da Giorgio Ferrara e ripresa da Patrizia Frini per l’allestimento di Le nozze di Figaro del Teatro Coccia di Novara (coprodotto con la Fondazione Ravenna Festival e il Festival dei Due Mondi di Spoleto) non mette al centro dei riflettori l’azione in quanto sottoinsieme spazio-temporale, né pone l’accento su sottotesti reconditi, ma si concentra sull’ambivalenza dell’intenzione drammaturgica per costruire uno spettacolo che vuole affidare all’osservatore l’onere di cogliere un significato, qualunque esso sia: è la commedia in quanto tale il soggetto dello rappresentazione, intesa come codice linguistico per un discorso trasversale tra platea e proscenio. Emergono così i personaggi non nella singolarità del tratto peculiare ma in quanto estremi di una proporzione che si disfa nel finale, dove si recupera l’idea di una comunità in cui le singole coscienze si accordano, ma tiene in equilibrio il delicato leveraggio del meccanismo teatrale. Gli audaci costumi di Maurizio Galante, che da un lato guardano alle linee neoclassiche di Pizzi e dall’altro puntano al modello scultoreo di Capucci, proiettano le suggestive scenografie di Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo (bellissimi i fondali dipinti del quarto atto) in un Settecento surreale e immaginifico che ben decontestualizza l’azione per avvalorare la caratura della metanarrazione.

La regia musicale è invece affidata con esiti egualmente positivi a Erina Yashima, già apprezzata alla guida della splendida Orchestra Giovanile Luigi Cherubini nella Cenerentola piacentina proprio un anno fa. Il risultato del rodato connubio è ancora una volta una concertazione ben temprata, galante, puntuale e precisa nelle dinamiche, attenta alla preziosità della scrittura strumentale mozartiana. Ciò che più piace della direzione è senz’altro l’eleganza con cui le sinuose linee degli archi e dei fiati affiorano dal vellutato manto orchestrale, la brillantezza del colore e del volume sapientemente dosato, la gentilezza della bacchetta che sa disimpegnarsi senza violenza in tempi scattanti e la varietà con cui le cellule ripetitive del dettato sono proposte. Il golfo mistico serve poi benissimo il palcoscenico: lodevole, tanto per citare un caso, la coordinazione tra voce e orchestra nel crescendo finale dell’aria del conte. L’ottimo tecnicismo direttoriale talvolta sacrifica qualche slancio appassionato – la luminosa coda del sestetto «Riconosci in questo amplesso», ad esempio, è un po’ lasciata al caso – ma nel complesso la prova del podio è di indiscutibile professionalità. Da non sottovalutare, infine, l’ottimo supporto offerto dell’accompagnamento al clavicembalo dei recitativi secchi, affidato al maestro Maria Silvana Pavan.

Nell’affiatato parterre vocale, non tuttavia privo di ombre, che abita questo piacevole contesto primeggiano i due protagonisti maschili.

Simone Del Savio è padrone indiscusso della scena e risponde meglio di tutti agli stimoli del metadiscorso. Il suo Figaro è irriverente, accattivante, vivo nella carica istrionesca con cui gli accenti, nei confini del buon gusto, irrobustiscono la linea di canto. La voce è poi ben emessa, timbrata e omogenea, piena nel registro centrale e acuto, di buon volume e buona proiezione, e questo è tanto di guadagnato.

A connotare l’irresistibile caratura aristocratica del Conte di Vittorio Prato, che rifiuta ogni stereotipo di attempata veemenza, non interviene solo il physique du rôle del seduttore imperituro, quanto la finezza di fraseggio esemplare per il senso della misura, per la cura nell’articolazione della parola e delle sfumature dinamiche. La voce fluttua sul fiato, corre e sgrana limpidissimi i sillabati dell’Allegro del gran finale secondo («Conoscete, signor Figaro») o le vorticose agilità dell’aria «Hai già vinta la causa!», ben ripagata da calorosi (e meritatissimi) apprezzamenti a scena aperta.

Lucrezia Drei ha in dote uno strumento cristallino e preciso, a proprio agio nel canto di agilità, che in Susanna non viene esasperato se non nelle graziose variazioni inserite nel finale del duettino con Marcellina. Per spigliatezza scenica e freschezza quella della Drei può considerarsi una prova a tuttotondo che, grazie al giusto equilibrio tra malizia e sensualità, incarna tutte le sfaccettature dell’universo femminile mozartiano: lunare l’aria «Deh, vieni, non tardar», dove le si riconosce anche una bella dose di legato.

Più sottotono la Contessa di Francesca Sassu, incisiva e signorile nei recitativi, ma carente di morbidezza nelle parentesi solistiche, confermando così le stesse impressioni avute nel medesimo ruolo a Verona lo scorso Aprile. Nel piccolo ruolo di Barbarina, Leonora Tess si impone per il fascino timbrico e la toccante vena patetica della cavatina. Ion Stancu, Don Bartolo, ha uno strumento di spessore ma l’emissione è grossolana, così come molto disordinata è apparsa l’organizzazione vocale del Cherubino di Aurora Faggioli.

Completano correttamente il cast Isabel de Paoli (Marcellina), Jorge Juan Morata (Basilio), Riccardo Benlodi (Don Curzio), Jonathan Kim (Antonio), le due contadine di Carlotta Linetti e Simona Pallanti, il coro San Gregorio Magno Istruito da Mauro Rolfi.

foto Mario Finotti


 

 

 
 
 

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