L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Paradisi e rifugi orientali

 di Antonino Trotta

Les pêcheurs de perles di Bizet inaugura la stagione 2019/2020 del Regio di Torino: trionfano Hasmik Torosyan, i magnifici complessi del teatro sabaudo e sul podio l’ottima concertazione di Ryan McAdams mentre delude e annoia la messinscena firmata da Julien Lubek e Cécile Roussat.

Torino, 3 ottobre 2019 – All’apice del periodo coloniale l’oriente doveva apparire quale ricettacolo di un’amenità di cui in fondo non si aveva grande cognizione: l’ambientazione forestiera, il colore locale, il fascino della realtà incontaminata, ancora regolata da ideologie che agli occhi dell’europeo illuminato potevano sembrare primordiali o obsolete, ricorrono e definiscono quel gusto per l’esotismo a cui tanto deve la drammaturgia musicale fin de siècle – si pensi all’Africaine di Meyerbeer, alla Dejanice di Catalani, a Lakmé di Delibes, Esclarmonde, Thais, Cléopatre di Massenet e, ovviamente, alla Butterfly di Puccini, giusto per citare qualche titolo –. Si tratta comunque di un gusto che raramente sfocia nel reale interesse e ancor più di rado si sofferma oltre l’alterità del luogo e, con un approccio colonialistico, si esportano negli atolli tropicali costumi e tradizioni del continente, intravedendovi talvolta le destinazioni perfette entro cui esiliare argomenti allora poco approcciabili e quindi cogliere l’occasione, seppur con l’ipocrita leggerezza che accompagna le osservazioni in lontananza, per parlarne. Perché se Riccardo e Giorgio intonavano la militaresca «Suoni la tromba e intrepido» mentre Carlo e Rodrigo, quattro anni dopo Les pêcheurs de perles, rinnoveranno i voti di amicizia nella virile «Dieu tu semas dans nos âmes», tutt’altro effetto deve aver sortito – e sortisce tutt’ora – il languido duetto tra Nadir e Zurga, e per la natura delicata del triangolo amoroso che pare a tutti gli effetti congiungersi in ogni vertice, e per l’importanza che il motif de la dèesse ricopre nell’economia, musicale soprattutto, dell’opera, arrivando anche a oscurare la fregola amorosa di cui Leïla è infine protagonista ordinaria. Lo Sri Lanka certo non è Sodoma o Gomorra, né tantomeno Mykonos, ma il profondo legame di fratellanza, qualunque sia il taglio con cui questo tema possa poi essere lavorato, non solo è la sfumatura più interessante dei Pêcheurs, ne è l’ossatura drammatica – tant’è che solo riconoscendo la componente tragica di quel soave leitmotiv si può riscattare l’epilogo dell’opera da un finale, assai frettoloso, tutt’altro che lieto –.

Ma orfani di idee – e con Nadir e Zurga che nemmeno si guardano in faccia durante il duetto – cosa fare se non rifugiarsi in quei paradisi orientali tanto finti quanto stucchevoli, viepiù se infarciti di balletti e visioni che colmano lo spazio senza mai riempire la scena. Affidandosi allora a un linguaggio la cui superficialità ha dell’incredibile, Julien Lubek e Cécile Roussat firmano la regia, le scene, i costumi, la coreografia, le luci e in definitiva la condanna di questo spettacolo. Niente prova a risollevare il libretto dall’indiscutibile avarizia di spunti, niente viene in soccorso di una narrazione piuttosto statica – se non qualche volta le luci – e se tutto lo sforzo d’immaginazione si è risolto nella statua del dio Brahma che si anima nel terzo atto, sarebbe invero bastato far muovere qualcuno tra i coristi – perennemente in pose plastiche sulle collinette che si affacciano nell’oceano indiano nemmeno dovessero da un momento all’altro esordire col «Va pensiero» – e protagonisti per destare, a questo punto, un minimo di stupore.

Le soddisfazione, che finora hanno latitato, sono tutte a carico del versante musicale. Da lodare innanzitutto il Coro del Teatro Regio di Torino – istruito al solito dal maestro Andrea Secchi – che vanta impasti vocali morbidi, grande omogeneità tra le sezioni e un pronunciato ventaglio dinamico e che nell’opera di Bizet individua il bacino ricchissimo dove raccogliere e inanellare perle pagina dopo pagina. Non meno decisiva per le sorti della serata è la concertazione ispirata, fortemente espressiva, proficuamente esotica di Ryan McAdams – che aveva già diretto l’opera in forma semi-scenica (quindi del tutto simile a questa) alla Rai nel 2015 –, ricercata specialmente nella timbrica strumentale – magnifica la tarantella finale –, nel cameratismo che si insinua tra un numero e l’altro – dove i tempi tendono a rarefarsi –, in generale nella preziosa caratura atmosferica, ora sacrale, ora eroica, evocata grazie anche alle note qualità del complessi dell’orchestra.

Sul parterre vocale s’impone senza troppi sforzi, in un ruolo che richiederebbe più il velluto di un soprano lirico più che l’agilità di un leggero, Hasmik Torosyan. Al netto di una increspatura del re interpolato nel finale primo, la prova procede senza sbavature: il timbro adamantino, il legato, l’emissione morbida corredata da filature, smorzature e messe di voce, ben rispondono alla fisionomia virginale di Leïla che pur scomoda nei confronti Norma e Giulia. Ecco allora che la bellissima cavatina del secondo atto, «Comme autrefois dans la nuit sombre», si articola tutta nella purezza di una linea belcantista mentre il fraseggio non manca di avvampare nel recitativo dell’imminente duetto con Nadir o fasi valoroso nella stretta di quello con Zurga – senza dubbio il momento più avvincente dell’intera serata – dove l’eroina bizetiana rivela tutta la sua statura.

Meno convincenti Nadir e Zurga. Il primo, Kévin Amiel, ha in dote una voce fibrosa e minuta che non si risparmia nelle impennate all’acuto o nelle mezze voci, indipendentemente dall’esito di quest’ultime. Il secondo, Pierre Doyen, che accorre all’ultimo minuto per il perdurare di un’indisposizione di Fabio Maria Capitanucci, si affaccia al ruolo vocalmente più insidioso del quartetto con uno strumento sonoro e graffiante. Per entrambi tuttavia, al di là di taluni difetti di emissione e talvolta d’intonazione, è la piattezza del fraseggio a compromettere l’esito della prova. Ugo Guagliardo è infine un Nourabad ieratico e protervo, ben servito da un bagaglio vocale importante.

Platea gremita e applausi calorosi con punte d’entusiasmo per McAdams e Torosyan.


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