Pentecoste a Salisburgo, i concerti di Rossini
di Francesco Lora
Lo Stabat Mater, la Petite messe solennelle e un gala di canto definiscono una giornata tutta rossiniana. Nei primi due concerti si impongono la direzione di Antonio Pappano, i complessi romani di Santa Cecilia e due eccellenti quartetti di solisti. Nel gala, improvvisazione e indisciplina hanno il sopravvento sulla giusta continuità stilistica.
SALISBURGO, 8 giugno 2014 – L’8 giugno è stata festa grande in casa di Gioachino Rossini: non a Pesaro, non a Bologna, non a Lugo, non a Parigi e non a Bad Wildbad, per elencare le città che si contendono l’origine o la residenza o la commemorazione del grande compositore; bensì a Salisburgo, dove quest’anno gli è stata dedicata tutta l’edizione del Festival di Pentecoste (costola nobile della rassegna estiva: 5-9 giugno). In programma, recite della Cenerentola e dell’Otello, e concerti a tema in particolare nella data detta in esordio: una maratona iniziata a mezzogiorno con lo Stabat Mater nel Grosses Festspielhaus, proseguita durante il pomeriggio con la Petite messe solennelle nel Mozarteum e terminata la sera con un gala di cantanti rossiniani ancora nel Grosses Festspielhaus. Artefice di tutta l’iniziativa: Cecilia Bartoli, direttore artistico del festival nel festival, primadonna delle due opere in cartellone, regina ineludibile del canto rossiniano e cantatrice romana come la Corinna del Viaggio a Reims.
Non è forse un caso che proprio da Roma siano venuti i complessi impegnati nello Stabat Mater e nella Petite messe solennelle. A Salisburgo sono di casa i Berliner e i Wiener Philharmoniker, la Staatskapelle di Dresda, ogni altra blasonata orchestra mitteleuropea e i relativi cori; ma la Bartoli ha spinto lo sguardo più in là dell’abitudine germanica, e ha voluto l’Orchestra e il Coro dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia, orgogliosamente accompagnati dal loro direttore musicale Antonio Pappano. È stato un gran favore reso a Rossini e una medaglia alla sua patria: già eccellenti ai tempi di Chung, sotto Pappano i complessi ceciliani godono ora di un aumentato risalto massmediatico; il maestro crede in loro, li sceglie per le proprie incisioni discografiche e li vuole in tournée anche dove siano residenti altri complessi da lui guidati (vedi il caso dei BBC Proms a Londra: Pappano è direttore musicale anche al Covent Garden). Tutto è meritato: dai tempi della trasformazione degli enti lirici in fondazioni, complice anche il ricambio generazionale, la qualità di orchestre e cori italiani si è trasfigurata; v’è una diversa distribuzione dei punti di forza, ma nulla da invidiare ai colleghi europei; e Santa Cecilia, più del Maggio Musicale Fiorentino e assai più della Scala, ha oggi i numeri per fare da capofila e pretendere una revisione dei conti al di là delle Alpi.
Una lode alla finezza del programma, innanzitutto. Piuttosto breve per fare spettacolo da solo, lo Stabat Mater è stato preceduto dall’esecuzione di un brano affine per genere musicale, tema rossiniano e valore intrinseco, e sconosciuto ai più. Si tratta del “primo” Libera me di Giuseppe Verdi: composto come contributo alla Messa per Rossini (1869), un compianto di tredici compositori italiani sulla scomparsa del loro decano, esso rimase inedito per fosche ragioni commerciali e fu poi massicciamente rielaborato nell’omologo della Messa da Requiem (1874). Il brano fornisce così a quest’ultima l’embrione del finimondo musicale nella Dies irae e, pur non osando ancora l’ascesa del soprano al catartico Do sopracuto, già chiama la solista a un impegno tecnico ed espressivo di prima linea. Si passa in tal modo a dire del quartetto dei solisti vocali, dove tre su quattro sono stati rimpiazzati all’ultimo momento e dove tuttavia l’esito finale è stato di encomiabile coesione artistica.
A Krassimira Stoyanova è subentrata Maria Agresta, egualmente a suo agio in Verdi come in Rossini, ferma e animosa e piena nel canto, e semplice e lirica e naturale nell’espressione, secondo la migliore tradizione italiana, senza per questo contravvenire alla severità stilistica del genere sacro. A Elīna Garanča è subentrata Sonia Ganassi, nella quale si ritrova con commozione la sontuosa pasta contraltile di vent’anni fa, eclatante ai tempi del debutto e poi andata e venuta da un cambio di repertorio all’altro: bentornata al Rossini dal quale tutto iniziò. A Piotr Beczala è subentrato Lawrence Brownlee, che dovrebbe solo eliminare la patina linguistica yankee e che ha per il resto timbro radioso, porgere cordiale, acuti infallibili e musicalità da vendere. Al proprio posto è invece rimasto Erwin Schrott, che è senza dubbio un portento della natura in fatto di bellezza timbrica, smalto e potenza; peccato però che l’interprete sembri per nulla conscio del significato del testo letterario, di norma aggredito con una spavalderia o una protervia fuori luogo.
E si torna poi a dire della lettura di Antonio Pappano e dell’apporto di Orchestra e Coro ceciliani, quest’ultimo preparato da Ciro Visco. L’anima direttoriale di Pappano è perlopiù vociofila, amante del canto e del repertorio operistico; il suo avvento romano, alla testa di un’istituzione non lirica ma sinfonica, non tanto gli ha schiuso il repertorio strumentale puro, quanto piuttosto lo ha portato a intensificare l’esecuzione di musica vocale anche in quella sede. E ciò va benissimo: non solo valorizza la compagine corale, ma anche mette in luce la vocazione al canto presente pure in quella orchestrale. Ciò che differenzia l’Orchestra di Santa Cecilia, e in generale le sue migliori sorelle italiane, dalle cugine mitteleuropee è la retorica della cantabilità sostituita a quella del bombastico. Gli archi, con la loro pasta, il loro legato, la loro flessuosità, hanno sempre il primo piano su legni e ottoni, dai quali ricevono contributi timbrici preziosi, espressi più nella selezione di mezzetinte che nell’esibizione degli estremi. E il Coro è un miracolo impensabile dalle parti di Salisburgo: la presenza di suono è inaudita, la gamma dinamica mobile come non mai, quella coloristica sfarzosa; la parola intonata è consegnata all’uditorio con pregnanza da solista.
L’approccio di Pappano è dunque quello della tradizione nobile, forte del materiale portato in dote dai suoi musicisti: nessuno dei filologismi praticati (o tentati) negli stessi giorni salisburghesi da Diego Fasolis (o Jean-Christophe Spinosi), ma sonorità spalmate, grandiose, a organico vasto e a piene vibrazioni. Ciò non esclude la sollecitudine a ogni sfumatura, la variazione dinamica a ogni ritornello e in generale la vivificazione del testo dove altri conoscerebbero le sole ragioni del metronomo. Uno tra i più illuminanti Stabat Mater oggi ascoltabili. L’amorevole cura dei dettagli torna, com’era da attendersi, nel concerto pomeridiano con la Petite messe solennelle: tutto si svolge in famiglia, nel più limpido e lodevole dei sensi, con Pappano e la moglie Pamela Bullock al primo e al secondo pianoforte, e con Visco a vigilare sul proprio coro dall’harmonium. In formazione ridotta all’indispensabile salottiero, il Coro di Santa Cecilia fa corona a un quartetto di solisti come Eva Mei, Vesselina Kasarova, Lawrence Brownlee e Michele Pertusi: materia di che fare un secondo Stabat Mater.
Gran via-vai di divi al gala rossiniano serale, dove Ádám Fischer ha diretto l’Orchestra del Mozarteum e tenuto per sé gli spazi dell’Ouverture del Guillaume Tell e della Sinfonia della Semiramide: soprattutto lì balza all’orecchio l’antitesi rispetto al gusto italiano e alla lezione di Santa Cecilia, con l’artiglieria di fiati e ottoni sempre metronomicamente fatta brillare sopra gli archi, con fraseggi calcati in modo esasperato e con il fraintendimento di numerosi segni (per esempio i punti coronati, scritti per appoggiarvisi retoricamente, mutati in secche martellate). Lussuosa la lista degli intervenuti: i mezzosoprani Cecilia Bartoli e Vesselina Kasarova; i tenori Javier Camarena, José Carreras e Juan Diego Flórez; i baritoni e bassi Massimo Cavalletti, Carlos Chausson, Alessandro Corbelli, Michele Pertusi e Ruggero Raimondi. E persin fantasiosa quella dei rinunciatari: i soprani Montserrat Caballé e Montserrat Martí; i mezzosoprani Agnes Baltsa e Teresa Berganza; i baritoni e bassi Ildebrando D’Arcangelo, Leo Nucci ed Erwin Schrott. Al momento della somma, poche primedonne, nessun soprano e un certo squilibrio, con tanta improvvisazione e qualche indisciplina (confidando nella leggendaria bonarietà del Cinghiale di Lugo: se la festa fosse stata fatta a Wolfgang Amadé Mozart o Richard Strauss, lo spirito sarebbe stato ben altrimenti compunto).
Rapida rassegna, a partire da un Raimondi logoro e sornione, più che mai ciondolante nel portamento e sarmatico nella dizione, e tuttavia ancora impressionante per imponenza di volume e facilità del registro acuto: «La calunnia è un venticello» dal Barbiere di Siviglia. «Largo al factotum»: ed entra un rossiniano più sedicente che di conclamata fede, Cavalletti, occhieggiando ai frizzi e ai lazzi che la renaissance rossiniana avrebbe già spazzato via da tempo. Bartoli e Flórez si incontrano per la prima volta dal vivo – incredibile dictu –intonando «Tutto è deserto... Amici! ... Un soave non so che» dalla Cenerentola: sono calligrafici entrambi nell’espressione e nelle figurazioni melodiche, ma della più forbita grafia, e sembrano scambiarsi in pubblico segreti di monarchia sul belcanto. Chausson difende anacronisticamente gli abusi del buffo caricato: ammicchi e grevità ovunque, anche se il testo letterario richiederebbe levità e brillantezza. Al polo opposto sta Pertusi, che presenta un pezzo ricercato come «Il mio piano è preparato» dalla Gazza ladra, lo interpreta con tutta l’analisi attoriale del quale è capace e, non compreso da chi grufola tra le perle contentandosi di pane e circensi, incassa solo applausi di stima. Conclude la prima parte del concerto la stretta del Finale I del Barbiere, con Kasarova in Rosina, Camarena in Almaviva, Cavalletti in Figaro, Chausson in Bartolo e Raimondi in Basilio; da vecchia volpe, la Bartoli fa un gesto di cortesia retrocedendo alla parte di Berta, ma acquisisce così anche tutti gli acuti con i quali svettare sulla Rosina di turno.
Seconda parte del concerto ed equivoci stilistici in cornice: la Kasarova, baluardo della rossinianità d’Oltralpe, si esibisce nella sortita d’Arsace dalla Semiramide, «Eccomi alfine in Babilonia ... Ah! quel giorno ognor rammento». Il canto ha splendido velluto, ma la coloratura è sciolta in impertinenti inégalités anziché sgranata nel suo giusto ritmo, mentre la parte en travesti diviene pretesto per un grottesco atteggiarsi maschilmente a ogni costo, tra mille borbottii viriloidi. Nel giusto stile torna invece, con la naturalezza dell’indigena rossiniana, la Bartoli alle prese con la Danza e con il duetto «Per piacere alla signora» dal Turco in Italia. Soprattutto in quest’ultimo, l’accoppiata con Alessandro Corbelli, principe dei buffi italiani per eleganza attoriale e tecnica vocale, dà conto di quale sia la giusta via interpretativa delle opere comiche: nessuna pagliacciata sovrapposta forzatamente al testo, del genere che tanto piace al pubblico non italofono, ma tanta allusione arguta, gioco intorno alla parola, canto rifinito come lo si vorrebbe in un Tancredi o in un Maometto II; si toglie anziché aggiungere: quel che rimane è l’anima di Rossini, e diviene esplosivo allo stato puro.
C’è poi il caso di cronaca: Camarena, interprete della parte di Don Ramiro nella Cenerentola del Festival, non brilla per originalità e presenta anche in concerto l’aria dello stesso personaggio, «Sì, ritrovarla io giuro». La canta tuttavia con tale malìa timbrica, tale duttile modulazione, tale facilità estensiva e tale sfacciataggine virtuosistica da lasciare di stucco il pubblico, da farlo scattare in piedi e da dover concedere a furor di popolo il bis della cabaletta. Una consacrazione e – se si vuol cercare la correlazione tra due fatti – muso lungo di Flórez all’uscita degli artisti. La serata termina in estatica malinconia di fronte a Carreras e al suo ritorno, dopo oltre quarant’anni dalla pionieristica incisione Vanguard, all’aria di Don Giocondo dalla Pietra del paragone, «Oh, come il fosco impetuoso nembo ... Quell’alme pupille»: canto faticoso, emissione esausta, smalto frusto; immagine incanutita, assorta, intimidita; eppure, manco a dirlo, si resta ancora fono-archeologicamente incantati di fronte alle sublimi rovine di uno tra i più bei timbri tenorili mai ascoltati, nella stessa sede dove ancora aleggia l’aura del mentore Karajan. Esperienze tali da trasportare in un presente parallelo, e da non farci più riconoscere il nostro al ritorno sulla terra.