L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Bohème, finalmente

di Antonino Trotta

Non senza intoppi, finalmente l’opera lirica torna anche al Teatro Regio di Torino: La bohème del centoventicinquesimo, costruita a partire dai bozzetti che Adolf Hohenstein realizzò per la prima assoluta proprio a Torino, vede finalmente la luce e brilla nella concertazione di Daniel Oren.

Streaming da Torino, 4 febbraio 2021 – Più che del centoventicinquesimo, giacché nata per essere rappresentata l’anno scorso, potremmo definire questa Bohème, mossasi sul calendario come una pedina sul tabellone del gioco dell’oca,come La bohème della liberazione. Liberazione dall’inerzia, appena interrotta da qualche concerto di stretching – pur pregevole, a onor del vero, per la finezza dei programmi proposti e le immutate qualità dei complessi –, che causa pandemia esterna e interna ha impantanato per quasi un anno l’amata lirico-sinfonica. Liberazione dalla fastidiosa constatazione che il Regio fosse forse l’unica fondazione lirica a non aver proposto, dall’inizio della pandemia, un dannatissimo titolo d’opera. Liberazione dalla Bohème stessa nel senso che ce siamo finalmente liberati: unica certezza nell’irrequieto destino del massimo teatro piemontese, sola superstite di ogni smembrata programmazione, da mesi pronta lì ad accoglierci e, non senza intoppi, finalmente c’è stata.

Gran punto di forza dello spettacolo è l’eccezionale concertazione di Daniel Oren che, alla guida dell’Orchestra del Teatro Regio in grandissimo spolvero, sul podio colora e sfaccetta l’opera con lo stesso entusiasmo con cui un pittore si diverte a mescolare i colori per crearne di nuovi e rendere vivi i propri quadri. Bando a vezzi e leziosaggini, al puccinismo di maniera, la bacchetta di Oren racconta l’amore che sboccia, la giovinezza che sfiorisce, la gioia delle piccole cose vissute insieme, parla di teatro e fa teatro: essa esalta il respiro sinfonico della partitura, mette in luce i preziosismi strumentali che non sono mai puro accessorio orchestrale ma eloquente dimensione in cui la musica abbraccia il dramma in ogni suo dettaglio. L’intesa con i complessi del Regio è tale da permettere un fraseggio ispirato e ricco di nuance – talora suggerito ai solisti, talaltra comandato –, una scansione ritmica imprevedibile che si inarca e stringe sovente nel giro di poche battute, arricchendo il contenuto della narrazione di immagini dolenti e poetiche che spesso sfuggono anche al regista più bravo.

Lo spettacolo curato da Paolo Gavazzeni e Piero Maranghi, sul versante scenico, alterna alti e bassi, inanellando in definitiva buona idee, cliché e talune ingenuità. Funziona, ossia convince, l’idea di isolare, in un’impostazione comunque tradizionale della messinscena, il microcosmo di Mimì e Rodolfo, di porre sulla loro storia di coppia più che un accento, come se gli altri esistessero se non come condizione al contorno, e così, quando il tempo sembra fermarsi prima dell’aria di Musetta – molto belle, qui, le luci di Andrea Anfossi –, quella relazione sul nascere si trova improvvisamente sbalzata in primo piano tra l’ebrezza della folla. Funzionano meno, anzi affiorano quasi quali elementi di disturbo, i metri che nel primo quadro separano Mimì da Rodolfo, specialmente nel momento in cui il poeta è libero di distendersi sul letto testa a testa con Marcello. Se ciò avviene per le strategie di prevenzione, l’impressione è che le norme anti-Covid siano state imposte e non metabolizzate, con quel pizzico di arbitrio che manda in confusione lo spettatore, da uno spettacolo ideato per tempi migliori piuttosto che essere integrate o aggirate con un guizzo tale da nascondere al pubblico la piaga del distanziamento; se invece si tratta di una libera scelta, chi scrive non ne ha compreso il motivo. Da questo punto di vista, in ogni caso, la sfida era assai ardua: opera di amore anche carnale e ammiccante seduzione, con espliciti riferimenti del libretto al contatto, è obiettivamente difficile da giostrare in questa complessa circostanza.

C’è però da dire che le scenografie ricostruite, pur apparentemente con qualche licenza – alle spalle del quartiere latino sembra di intravedere la Basilica del Sacro Cuore che nel 1896 nemmeno era finita –, a partire dai magnifici bozzetti che Adolf Hohenstein realizzò per la prima assoluta dell’opera, curate da Leila Fteita e dipinte da pittore Rinaldo Rinaldi regalano, solo attraverso lo schermo di un notebook, un colpo d’occhio decisamente appagante. Davvero un peccato non averne potuto godere dal vivo. Molto belli e funzionali alla dialogica visiva i costumi storici confezionati di Nicoletta Ceccolini.

Valido nel complesso il cast. Maria Teresa Leva vive appieno il personaggio di Mimì: già ascoltata in questo ruolo – a Piacenza –, continua a convincerci per l’espressività del canto, per la ricerca certosina delle tinte e delle sfumature – talvolta guadagnate con laboriosi artifici tecnici –, per l’avvolgente ricchezza del registro centrale. Iván Ayón Rivas, giovanissimo tenore che ha ancora margine di crescita, affronta Rodolfo con sicurezza e impeto giovanile, centra tutti gli acuti, fraseggia con intenzione e garbo, recita bene e nel finale dell’opera è persino commovente. Hasmik Torosyan, come Musetta, è una vera meraviglia perché la voce, educata dal belcanto, è piena anche nelle morbidissime smorzature e la linea, brillante e sorvegliata, non teme le vette né le zone gravi della scrittura. Di Massimo Cavalletti, Marcello, si riferisce la solita considerazione: voce potenzialmente interessante ma emissione spesso troppo grossier. Efficaci Tommaso Barea e Alessio Cacciamani, rispettivamente Schaunard e Colline. Completano correttamente il cast Matteo Peirone (Benoît e Alcindoro), Alejandro Escobar (Parpignol), Desaret Lyka (Sergente dei doganieri), Gabriel Alexander Wernick (Un doganiere), Franco Traverso (Il venditore di prugne) e Matilda Elia (Un ragazzo). Ottima, ma non è una novità, anzi è una certezza, la prova del Coro del Teatro Regio di Torino – manca quello di voci bianche – istruito dal maestro Andrea Secchi.

È evidente, sul Regio di Torino incombe qualche terribile fattura, dalla caduta delle teste in poi niente sembra essere più andato per il verso giusto. Speriamo che Napoli siano arrivati, oltre a Muti e al Cosi fan tutte, anche qualche benaugurante cornicello d’argento. Incrociamo le dita.


 

 

 
 
 

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