L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Fenice, Rigoletto toglie il respiro

di Francesco Lora

Nell’allestimento con regìa di Damiano Michieletto, il capolavoro di Verdi riceve dal direttore Daniele Callegari una lettura narrativamente trascinante e sinfonicamente rivelatoria. Compagnia di canto con un protagonista d’eccezione, Luca Salsi, e gli altrettanto ben inquadrati Claudia Pavone e Iván Ayón Rivas.

VENEZIA, 10 ottobre 2021 – Oltre la prima reazione, entusiastica o contrariata, ci sono spettacoli fatti per svanire dalla memoria e altri fatti per perpetuarsi nel pensiero: spesso si scrive intorno ai primi, qui si dice di uno tra i secondi. Dal 29 settembre al 10 ottobre, per nove recite, alla Fenice di Venezia è andato in scena un Rigoletto di forza drammatica rivoluzionaria: la stessa che il capolavoro di Verdi doveva aver manifestato centosettant’anni fa, quando fu creato in quel medesimo teatro, e la stessa che oggi latita per sottomissione degli interpreti a pudore e pigrizia. La locandina tuona l’allestimento con regìa di Damiano Michieletto, scene di Paolo Fantin, costumi di Agostino Cavalca e luci di Alessandro Carletti, varato nel 2017 all’Opera Nazionale Olandese di Amsterdam e qui presentato per la prima volta in Italia. In esso l’azione è filtrata attraverso un’immaginaria ossessione del protagonista, finito in un ospedale psichiatrico a rivivere nella disperazione la perdita della figlia; una rivisitazione non troppo originale – Robert Carsen e Alessio Pizzech, di recente, hanno saputo anche ardire oltre – accompagnata però da due pregi: il primo è che la lettura di Michieletto vanta alto livello tecnico nella scelta dei collaboratori e meticolosità nel lavoro con gli attori; il secondo è che essa asseconda una lettura musicale al di sopra di ogni discussione e davvero esigente in fatto di nerbo e coraggio.

Il vero eroe di questo Rigoletto è infatti il concertatore, Daniele Callegari, viepiù determinato a farsi valere come nemico della routine. Succede che nella sua direzione si riconosce – come mai durante gli ultimi trent’anni almeno; e il precedente di Riccardo Muti è quasi isolato – l’opera come Verdi l’aveva licenziata e descritta: concisa e forbita, raffinatamente caratterizzata nei temi, nei metri, nei timbri, e soprattutto dal suo fluire continuo, inesorabile, fulmineo, scavalcando con la logica della scena drammatica i limiti del “numero” chiuso in alternanza col recitativo. Quello di Callegari è un Rigoletto che toglie il respiro per energia di passo drammatico e che nemmeno fa passare per la mente d’interrompere il discorso musicale – narrativamente trascinante, sinfonicamente rivelatorio – con la banalità di applausi a scena aperta. Agogiche, dinamiche, note, corone e cadenze sono – va da sé, guarda un po’ – quelli integralmente scritti dall’autore, invariabilmente superiori a ciò che la tradizione vi ha incrostato sopra. E chi voglia figurarsi riassunto in un solo esempio la cifra di tutta l’operazione, si riferisca a quel «Cortigiani, vil razza dannata» che ricade furioso, mulinellante, strumentalmente sostegno a un declamato con la bava alla bocca, senza alcuna sospensione retorica dopo la scena che lo precede: nel Rigoletto di Callegari non ci sono cinture di sicurezza per il borghese benessere del pubblico abitudinario.

C’è invece un baritono d’eccezione, Luca Salsi, che col suo profluvio di canto facile, duttile e smaltato potrebbe tirare giù il teatro a suon di gigionate, e accetta invece di lavorare unendo il viscerale al microscopico, ponendo il graffio della parola davanti al fulgore della vocalità e rinunciando agli acuti fuori ordinanza onde indagare il testo: lo aveva già fatto sotto la validissima direzione di Riccardo Frizza, al Maggio Musicale Fiorentino, in una recita a porte chiuse del 23 febbraio scorso, e a Venezia riesce addirittura a superare sé stesso. Claudia Pavone, come Gilda, è attrice non meno impegnata e musicista non meno depurata: le sue facoltà tecniche ben si riassumono nella nitida articolazione di un raro trillo autentico. Al Duca di Mantova corrisponde invece il consueto, solare, spavaldo patrimonio tenorile di Iván Ayón Rivas, tanto più messo a lustro dall’acribia di studio chiestagli e corrisposta. Incisivi nella loro sorniona, maliziosa o autorevole sobrietà lo Sparafucile di Matteo Denti, la Maddalena di Valeria Girardello e il Conte di Monterone di Gianfranco Montresor; rifinito il comprimariato, dalla Giovanna di Carlotta Vichi al Marullo di Armando Gabba, al Matteo Borsa di Marcello Nardis, al Conte di Ceprano e alla relativa Contessa di Matteo Ferrara e Rosanna Lo Greco. Coro maschile della Fenice vivido come non mai, e orchestra slanciata a livello d’apoteosi.


 

 

 
 
 

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