L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Donizetti libre

di Roberta Pedrotti

La fille du régiment al Donizetti di Bergamo è un'esplosione di colori teatrali e musicali grazie a un cast eccellente, alla bacchetta di Michele Spotti e alla regia di Luis Ernesto Doñas, che sanno divertire con intelligenza valorizzando tutte le sfaccettature dell'opéra-comique.

BERGAMO, 21 novembre 2021 - Un tenore che infili quei nove do che tutti aspettano (spettacolare, sì, ma per chi canta in quelle tessiture non certo l'aria più difficile del repertorio), un soprano esuberante che faccia ridere nella scena della lezione e sfoderi qualche fuoco d'artificio (se poi fa anche piangere un pochino in “Il faut partir”, tanto meglio): sembra che la formula del successo facile per La fille du régiment sia tutta lì. E, difatti, alla fine non ci si diverte nemmeno più tanto, fra un Do e l'altro. Invece, a Bergamo, ce la si gode fino all'ultimo sorso in uno di quegli spettacoli in cui tutto, ma proprio tutto, fila a meraviglia e si esce dal teatro con il cuore più leggero. Ci voleva, finalmente.

Intanto, i nove do diventano undici ribattendo l'ultimo – come già faceva Rockwell Blake – e da undici ventidue quando il pubblico reclama e ottiene il bis. E, siccome anche John Osborn non è solo un fenomeno vocale, ma è un vero artista, la mitragliata di acuti si arricchisce di variazioni e appoggiature sovracute perfettamente in stile per raccontare l'incontenibile felicità di Tonio. Il personaggio c'è tutto, anche in “Pour me rapprocher de Marie”, che nell'edizione critica acquista corposissimi pertichini di Marie, Sulpice e della Marquise, quasi un quartetto centrale d'atto che conferisce ben altro respiro alla drammaturgia dell'opera. E in effetti è questo che balza soprattutto all'occhio e all'orecchio: ci divertiamo tanto perché non è un esile divertissement, ma una commedia ben scritta e sfaccettata.

La regia di Luis Ernesto Doñas (drammaturgo Stefano Simone Pintor), che inaugura sotto i migliori auspici una collaborazione fra il festival bergamasco e il Teatro Lìrico Nacional de Cuba, colpisce subito per i colori sgargianti, ma non si ferma all'effetto, che altrimenti stancherebbe presto. L'azione è collocata nell'isola caraibica ai tempi della rivoluzione, il reggimento si chiama “La France” in omaggio ai giacobini, invece delle armi impugna pennelli per diffondere le nuove idee tramite immagini fra i contadini di una variopinta piantagione di canna da zucchero, mentre l'alta società è tutta in bianco e nero, abiti e ambienti decorati a stelle, strisce e simbolo del dollaro (scene di Angelo Sala, costumi di Maykel Martinez). Non è, però, uno spettacolo politico (anche perché il riferimento iconografico è Raul Martinez, rivoluzionario ribelle che si ispirava alla pop art americana!), il riferimento storico ha la lievità della fiaba nel rivisitare l'ansia dei nobili Krakenthorp o Berkenfield di fronte a quei francesi che “ne respectent rien!”, non si calca mai la mano e si dà spazio ai personaggi. Ne risulta valorizzata la figura proprio della Marquise, con una sorprendente Adriana Bignagni Lesca che prima intona “Pour une femme de mon nom” con la sfrontatezza di “When you're good to Mama” del musical Chicago, poi nel secondo atto inchioda alla sedia per il nobile pathos in cui recita la confessione dell'amore per il capitain Robert, della nascita di Marie, dell'ostilità della famiglia. Raro davvero incontrare una Marquise così profonda e complessa, ma anche musicalmente pregnante, e non solo per un'habanera di baule interpolata prima della scena della lezione.

Così, se di Osborn abbiamo già detto che non è solo una macchina per acuti o un tenero amoroso, ma un giovane uomo sempre più consapevole e intraprendente, Sara Blanch, voce fresca e agile come il fisico, nella parte di Marie fa valere una disarmante naturalezza nel côté spiensierato – ma non sciocco, anzi determinato – e in quello patetico – ma non lacrimevole – l'uno necessario e consequenziale all'altro. Paolo Bordogna ci ricorda che Sulpice è un padre e un militare graduato, un uomo con delle idee e delle responsabilità, senza che questo strida con lo spirito della commedia. Anzi, la rende più interessante. Haris Adrianos intende Hortensius finalmente come uno zelante segretario, magari un po' maldestro ma non una macchietta; Cristina Bugatty coglie la misura di una Krakenthorp autoritaria e snob senza bisogno di strafare; Adolfo Corrado e Andrea Civetta sono il caporale e il contadino. Ernesto Lopez Maturell vivacizza il tutto come percussionista al seguito del reggimento. Bene il coro dell'Accademia del Teatro alla Scala diretto da Salvo Sgrò.

Tutti colori e le sfaccettature, il ritmo accattivante e la cura non banale, le felice caratterizzazioni teatrali sono poi l'incarnazione di una perfetta sintonia con la concertazione di Michele Spotti. Quando a ventotto anni c'è chi sale sul podio con questi risultati, tutti i lamentosi profeti di sventure per le sorti dell'arte dovrebbero solo nascondersi. Spotti non solo è padrone del linguaggio donizettiano, ma è anche un appassionato frequentatore di Offenbach: la competenza si fa spirito, spumeggiante e aromatico, l'orchestra, nel suo slancio, ha una leggerezza che non sovrasta mai le voci, ma non manca nemmeno di corpo, energia, colore. Anzi, nel farsi parte del canto e del teatro è giustamente esuberante, travolge con l'intelligenza del dettaglio propulsivo, della dialettica dinamica e agogica, di una sana ironia che non ha paura di farsi sentire. E si fa sentire perché conosce anche le sfumature sentimentali, perché in essa nasce il sentimento e nel sentimento l'ironia. Le pennellate del ranz de vaches e il rutilare militare, i couplet della Marquise e i cantabili melanconici di Marie così ben delineati e consequenziali sono un piacere che rende piena giustizia all'opéra-comique di Donizetti e ci ricorda che la sua associazione con le radici dell'operetta non sia una diminutio, ma semmai un valore aggiunto. Non ci dimentichiamo che stiamo ascoltando il Bergamasco, ma ci figuriamo un giovane Offenbach che prende appunti (e ci vien voglia tornare presto a teatro per qualche lavoro suo, magari sempre diretto da Spotti).

Il calore di un tripudio franco caraibico meritato per tutti si espande anche nella foschia pungente che ci accoglie all'uscita dal Donizetti. Il festival è ripartito, ed è ripartito alla grande.


 

 

 
 
 

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