L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Intuito e rigore

di Mario Tedesch Turco

Filippo Gorini, al Teatro Ristori di Verona, interpreta Beethoven con sguardo dottissimo unito a intuizione estrosa e profondamente suggestiva

«Sempre pp», «sempre ben tranquillo e uguale», «non troppo staccato», «leggiermente», «tranquillo, molto delicato»: chiunque abbia preso tra mano il testo dell’Op. 111 beethoveniana conosce questo miracoloso passaggio in 9/16 dell’Arietta, il quale giunge come smaterializzato dopo la furia sincopata della terza variazione in 12/32, a indicare spazi aerei, distese di luce soffusa e, chissà, forse un altrove metafisico, di pace e purezza finalmente conquistate. Nel concerto di Filippo Gorini al Ristori di Verona la quarta variazione in argomento è stato il momento più alto nel quale si è manifestata la maestria di questo giovane artista, già onusto di gloria in vari concorsi internazionali, e giunto altresì a una serie di realizzazioni discografiche (Beethoven, Variazioni Diabelli, 2017 e Sonate op. 106 e 111, 2020;Bach, L’arte della fuga, 2021, tutte edite da Alpha) ampiamente lodata sia in patria sia all’estero. Più che una promessa, dunque, una realtà già consolidata quella del pianismo del ventisettenne lombardo, che pare aver mutuato da uno dei suoi mentori, Alfred Brendel, un approccio alla musica di rilevato impegno concettuale, lo sguardo ri-creativo dell’interprete focalizzato sul senso globale dell’esperienza dell’ascolto, il quale viene inteso come processo conoscitivo della presenza sonora storicamente individuata assai più che su l’esibizione tecnicamente scintillante. In quel quarto tassello di variazione, dicevamo, lo sguardo autoptico di un artista singolarmente consapevole ha rispettato con lodevole esattezza tutte le indicazioni d’autore di evitare il rubato, di legare con sobrietà, di far udire infine lo scorrere “liquido” delle frequenze così come notato, in quanto ipostasi di per sé evidente di uno stato di quiete estatica, che si protende oltre l’individuo verso l’universo. Poesia assoluta dell’ultimo Beethoven, resa nel dettaglio con bello sbalzo plastico e totale controllo dinamico.

Gorini organizza un concerto breve ma assai denso, con l’op. 110 e 111 di Beethoven, intervallate dal Klavierstück IX di Stockhausen, in modo da tendere un filo che dalle macrostrutture di architettura (il contrappunto severo reinventato di Beethoven, la sequenza della sezione aurea che regola l’opposizione dialettico/drammatica in Stockhausen) si arrivi in realtà a porre alla massima evidenza il lirismo di entrambi, la dolcezza struggente del classico-romantico come le luci taglienti dapprima, lievissime e potentemente espressive nel complesso, dello Stockhausen del 1961. Gorini impressiona soprattutto in questo modo, per come lascia cantare lo strumento nei movimenti larghi beethoveniani, resi con una lentezza austera, grave, in cui un pathos tutto interiore pervade lo spazio sonoro in oasi nelle quali soprattutto la dinamica dal piano al pianissimo riceve un cesello insieme e una risonanza preziose. Del pari, il flusso dinamico dal ff al pppp del Klavierstück IX nelle sezioni accordali ribattute ha ricevuto sia il senso dell’anticlimax verso lo spegnersi/aprirsi implicito nella scrittura, che un notevole effetto di spazializzazione della risonanza progressiva verso il silenzio, così che la struttura oppositiva tra gli eventi ripetuti (gli accordi iterati), e la frammentazione successiva dei lacerti motivici «aperiodici» ha risuonato sia con nitore strutturale che con lacerata, concreta, vagamente allucinata qualità poetica.

Lode dunque allo sguardo dottissimo dell’interprete e alla sua intuizione estrosa e profondamente suggestiva, sostenuta da una tecnica la quale, nella dimensione del raccoglimento incantato, del mélos animato, della seduzione intimista ha evidenziato varietà di tocco, sapienza indubitabile nella sobria pedalizzazione, precisione di dettaglio e conseguente appropriata tavolozza timbrica. Meno impeccabile, c’è da dire, l’acrobazia digitale nei passaggi veloci, così che qualche lieve sfasatura ritmica tra le due mani, a confondere un po’ i diversi piani sonori della polifonia di Beethoven, si è avvertita nell’op. 110 (sulle tre voci della prima fuga, peraltro notevole – ancora – per l’intensità elegiaca messa in forma)e nella terza variazione dell’op. 111. È venuto così un po’ a mancare il quid sovrumano, in questo Beethoven, la cifra del suo slancio verso il sublime che, anche nell’ultima fase creativa, è certamente strutturato nella quintessenza formale di impianto classico, ma superandola dall’interno, nella sintesi ultimativa tra rigore e smania impetuosa di esprimere. Ma è menda non gravissima, per un pianista di cui non si può che ammirare il rigore intellettuale, da vero musicista.


 

 

 
 
 

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